È necessario “precisare” il capo d’imputazione nei confronti di Luca Palamara. L’invito, cortese e garbato, è stato rivolto ieri mattina dal giudice Piercarlo Frabotta ai pm Mario Formisano e Gemma Milani durante l’udienza preliminare del processo in corso a Perugia a carico dell’ex zar delle nomine al Csm. Un assist per la difesa di Palamara, rappresentata dall’avvocato romano Benedetto Marzocchi Buratti, che da mesi sostiene, inascoltata, “l’indeterminatezza” dell’accusa di corruzione per il proprio assistito formulata dai pm del capoluogo umbro.
Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, va detto, ereditata l’indagine che ha terremotato il Csm, appena insediatosi aveva cercato di correre ai ripari e di correggere il tiro rispetto a quanto indicato nella iniziale richiesta di rinvio a giudizio.

Correzioni ritenute, però, non sufficienti da parte del gup Frabotta che deve decidere se mandare o meno a dibattimento Palamara. La Procura di Perugia ha ora circa due settimane di tempo, la nuova udienza è in programma il prossimo 22 febbraio, per mettere ordine nel capo d’imputazione. Tecnicamente la Procura potrà anche decidere di non fare nulla e insistere con le attuali accuse. Titolare dell’azione penale, infatti, è solo il pm. Se il gup avesse rimandato indietro il fascicolo sarebbe stato passibile di azione disciplinare: il processo non è un esame universitario in cui il professore può dire allo studente impreparato di tornare al prossimo appello dopo aver studiato. L’imputazione, comunque, potrà essere modificata dai pm anche nel corso del dibattimento.

Certamente, però, un processo che già nella fase dell’udienza preliminare parte in questo modo non è un bel segnale. Anche perché la Procura di Perugia ha indagato per anni su Palamara con un impiego di risorse e mezzi no limits: dai pedinamenti notturni fin sotto casa, all’utilizzo massiccio del terribile trojan. Molte comunque le perplessità su quest’ultimo aspetto: come è stato più volte segnalato, il virus spia registrava gli incontri di Palamara con i figli ma non le sue cene con l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e alti magistrati del Tribunale di Roma.

Il punto centrale, tornando all’indagine, è sempre lo stesso: all’ex capo dei magistrati viene contestato di aver condizionato, in cambio di pranzi e viaggi assortiti, le nomine apicali delle toghe anche quando era pm a Roma e non potente consigliere del Csm. Come può, non essendo nella stanza dei bottoni, aver condizionato le decisioni del Csm? Aveva dei sodali di stretta osservanza a Palazzo dei Marescialli? E in caso di risposta affermativa, chi erano? Sono stati identificati? La Procura di Perugia questo aspetto non lo ha chiarito. Ma oltre ad “aggiustare” il capo d’imputazione seguendo la “moral suasion” del gup, il vero terreno di scontro ci sarà quando, in caso di rinvio a giudizio, dovrà essere discussa la lista dei testi. Se il collegio di Perugia sceglierà la strada del “turbo processo”, vedasi sezione disciplinare Csm “prima maniera”, dove i testimoni di Palamara nel processo per i fatti dell’hotel Champagne sono stati tagliati, il problema non si pone. La condanna è certa.

Ma se dovesse ammettere, come ha fatto la sezione disciplinare del Csm “seconda maniera”, autorizzando per le medesime incolpazioni i testimoni richiesti dai magistrati che parteciparono con Palamara all’incontro dell’hotel Champagne, la strada per la Procura sarà in salita. Da indiscrezioni, la difesa di Palamara punta a citare tutti gli ex componenti del Csm. La tesi difensiva è semplice: in un organo collegiale, come appunto il Csm, Palamara non ha potuto fare tutto solo. Ci saranno chiamate in correità? In caso contrario, se i consiglieri del Csm avevano sentore che Palamara per le nomine si facesse pagare le cene di pesce e i trattamenti termali a San Casciano dei Bagni, per quale motivo non lo hanno fatto arrestare, consentendogli di agire indisturbato?

Sarebbe la conferma che il “Sistema” delle nomine esisteva. Al momento le uniche certezze che ha prodotto questo procedimento penale è il “ribaltone” al Csm, con le dimissioni di più della metà dei consiglieri della destra e dei palamariani a favore della sinistra giudiziaria e dei davighiani, e la stroncatura della nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma a favore di Michele Prestipino. Sul punto, un mistero mai chiarito e in attesa di risposta da oltre un anno: come mai Piercamillo Davigo, dopo aver votato, cambiò idea su Viola? Cosa è successo?