Su un campione di 423 ragazzi napoletani destinatari del provvedimento di estinzione del processo per messa alla prova, 176 si sono resi protagonisti da maggiorenni di altri reati. La percentuale di recidivi tra giovanissimi a Napoli è del 41,6%. Un dato allarmante che spinge a domandarsi cosa si può fare per invertire questa tendenza, per salvare giovani vite da destini di galera o di morte. Il dato è emerso dallo studio condotto dal centro di ricerca Res Incorrupta dell’università Suor Orsola Benincasa a fine 2019 su richiesta della Commissione parlamentare antimafia.

È una delle fotografie più aggiornate della realtà dei minori a rischio in città. Giovani che sono tanti e sempre più condizionati da contesti familiari e ambientali. Quando non è l’arruolamento vero e proprio nelle fila di clan della camorra, è l’ambiente della microcriminalità ad assorbirli, influenzarli, portarli su strade dalle quali è quasi sempre difficile tornare indietro. La giustizia ripartiva è uno strumento utile per contrastare il fenomeno della delinquenza minorile ma non basta. «Ci troviamo di fronte a dati scoraggianti – spiega la criminologa Simona Melorio, che ha curato la ricerca – La messa alla prova non riesce a essere un argine effettivo rispetto alla commissione di altri reati. Dobbiamo renderci conto del fatto che Napoli e le zone di criminalità organizzata sono ambienti particolari per cui richiedono specifici interventi. Dove ci sono quartieri che sono da tempo conquista di clan, serve un intervento ancora più specifico». Per la criminologa è importante puntare su «spazi di ascolto e di osservazione più lunghi», su «interventi personalizzati per ogni ragazzo».

«Ogni percorso deve tener conto dell’indagine socio-ambientale e dei fattori di rischio del territorio – aggiunge l’esperta, citando il caso di Luigi Caiafa, protagonista del più recente fatto di cronaca che ha riacceso a Napoli il dibattito sui minori a rischio – Luigi era in una situazione di messa alla prova, ma lavorava nella pizzeria accanto casa e quindi in qualche modo rimanda all’interno del suo territorio, continuava ad avere rapporti con il suo gruppo amicale che poteva essere anche un gruppo deviante. È su questo che dobbiamo cominciare a ragionare». «Non sto dicendo – chiarisce – che bisogna togliere i ragazzi dal loro ambiente e portarli altrove, però l’intervento di messa alla prova richiederebbe un’attenzione più lenta, più lunga, uno spazio di osservazione maggiore, che possa garantire un accompagnamento costante del ragazzo perché dalla nostra ricerca è emerso che la messa alla prova rimane spesso un’esperienza che non ha contatto con la realtà». Per molti ragazzi finisce per essere una sorta di vacanza, e i problemi tornano quando si ritorna alla vita di sempre.

«I ragazzi sono sempre molto bravi ad accogliere tutti gli stimoli. Sicuramente è a loro vantaggio terminare il percorso e vedere estinto il reato, ma spesso sono sinceramente coinvolti – racconta Melorio – Poi però, quando le attività finiscono e i ragazzi rientrano nel loro ambiente, se intorno ad essi non si è costruita una rete, se non si è lavorato con le famiglie, se non si è individuato il problema nella rete amicale è difficile immaginare che questi ragazzi siano del tutto cambiati, con una nuova pelle. Spesso il rientro alla normalità comporta il dismettere i panni nuovi e rimettere i panni vecchi». Ed ecco, dunque, la necessità, secondo l’esperta, di un potenziamento della rete di assistenza sociale territoriale, di spazi di ascolto, di percorsi più mirati.

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).