Avviare immediatamente la mappatura dei fabbisogni di lavoro agricolo. È l’azione, già contemplata nel Piano triennale di prevenzione e contrasto al caporalato condiviso con Luciana Lamorgese e Nunzia Catalfo, che dobbiamo mettere in campo per due irrinunciabili priorità: fronteggiare l’assenza di manodopera che rischia di mandare in enorme sofferenza le nostre aziende agricole, incrociando in modo trasparente e legale domanda e offerta di lavoro; prevenire l’emergenza umanitaria che può determinarsi negli insediamenti informali affollati di persone che in questo momento non lavorano o lo fanno nella più totale invisibilità, sono a rischio fame, abbandonati a sé stessi e in balia della minaccia da virus.

Oggi possiamo dire: non si contano vittime nella trentina di alloggi distrutti a Borgo Mezzanone venerdì notte per un incendio di forti dimensioni. Ma dobbiamo essere consapevoli: la prossima volta potrebbe non andare così; nel nostro Paese non sono più tollerabili ghetti o baraccopoli. Lo scrivo a chiare lettere e per tre ordini di ragioni. Una legata proprio a Borgo Mezzanone e alle baraccopoli. In quell’insediamento, dove al momento le cronache contano circa millecinquecento persone, non è andata così né il 4 febbraio scorso, quando una donna è morta gravemente ustionata in un rogo, né nell’aprile dello scorso anno, quando un incendio aveva provocato la morte di un ventiseienne gambiano.

A ciò si aggiunge, e lo sottolineo, che in Italia non esistono filiere sporche: la nostra agricoltura è fatta di migliaia di aziende sane. Quelle che agiscono nell’illegalità vanno perseguite e noi ci siamo dotati di una legge contro il caporalato considerata tra le migliori a livello internazionale. Inoltre, l’agricoltura italiana è per un terzo caratterizzata dalla presenza di lavoratrici e lavoratori stranieri. A dirlo non sono io ma i numeri. I lavoratori stranieri occupati nei nostri campi sono circa 370 mila; se l’agricoltura incide sull’occupazione totale nel nostro Paese per una media del 4%, il dato sale oltre il 6% tra gli stranieri. L’agricoltura è un grande laboratorio di integrazione a cielo aperto.

E questo a dispetto di chi considera “l’altro”, il “migrante” sempre e solo un nemico sociale su cui scaricare rabbia e rancore, e che sulla paura degli immigrati ha fatto vivere a questo paese 18 mesi di campagna elettorale permanente.
C’è qualcosa di molto importante, anche sul piano simbolico, che va pienamente raccolto nella richiesta pressante di aziende e associazioni agricole. Che paradossalmente travalica sia il fabbisogno di manodopera stagionale che il rischio di raccolti lasciati a marcire nelle campagne, il che non può assolutamente accadere. È il bisogno di legalità che le aziende esprimono. Di piattaforme dove in modo trasparente e legale si incrocino domanda e offerta di lavoro. Lasciarlo inevaso sarebbe imperdonabile.

Regolarizzare, sia pure temporaneamente, i lavoratori migranti degli insediamenti informali o meno è una risposta praticabile e dovuta. Per molte ragioni, umanità e giustizia soprattutto, tra cui il dato che quei lavoratori sono già nel nostro Paese, forse già nelle nostre campagne o ci potrebbero essere tra poco. Sono necessari uno sforzo e un coraggio all’altezza della sfida. Per impedire che negli insediamenti, è la spinta su cui si è mosso il Portogallo, si determini una gravissima emergenza sanitaria. Per fare i conti con l’assenza di manodopera nei campi, tema che nelle prossime settimane assumerà dimensioni ancora maggiori, quando molti prodotti ortofrutticoli andranno a maturazione. Per mantenere vivo, sicuro, stabile, il tessuto delle nostre filiere. Quelle che stanno garantendo in queste settimane il bene cibo al Paese, e non possiamo assolutamente permettere che vadano in sofferenza. C’è infine, ma non ultima, una ragione che detta tutte le altre: sconfiggere il caporalato.

Per me, che l’ho conosciuto e sofferto sulla mia pelle e su quella delle mie amiche e compagne di lavoro, è quasi una ragione di vita. La norma contro il caporalato corre lungo due binari, non a caso, fortemente intrecciati: repressione e prevenzione. La repressione ha finora funzionato. La prevenzione è l’obiettivo che orienta e fonda il Piano triennale, definito di concerto con tutti gli attori istituzionali, economici, sociali coinvolti. Per la prima volta, con questo Piano, lo Stato si è dato un metodo preciso per la prevenzione e il contrasto del fenomeno. È un punto di svolta fondamentale. Nei giorni scorsi mi è stato chiesto se temessi che, a causa del coronavirus, la clandestinità sarebbe aumentata. Io non voglio temerlo, voglio evitarlo. Per me significa sottrarre in tutti i modi terreno alla criminalità e a quella zona grigia dove le mafie si insinuano offrendo servizi che invece deve essere lo Stato, il pubblico, a garantire dettandone le condizioni.

Per questo vanno assolutamente smantellati gli insediamenti illegali, portando quei cittadini, quei lavoratori, nella legalità e nel lavoro regolare, offrendo loro i servizi adeguati e integrati, dai trasporti agli alloggi. Si può e si deve fare. Sconfiggere il caporalato. Impedire che negli insediamenti informali si determinino emergenze sanitarie o bisogno assoluto di cibo. Garantire alle imprese manodopera sottraendole, soprattutto quelle piccole e piccolissime, al giogo ricattatorio e micidiale dei caporali e della criminalità. È il terreno su cui ci misuriamo. Alla qualità delle risposte, al nostro saper essere adeguati, si lega, adesso più che mai, anche il futuro del Paese.

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61 anni, pugliese, abbandona giovanissima gli studi dopo la licenza di terza media per andare a lavorare nei campi. Entra poco dopo nel sindacato, impegnandosi contro la piaga del caporalato e diventando poi dirigente nazionale. Diventa deputata nelle file del PD nel 2008, poi Vice Ministra dello Sviluppo Economico dei Governi Renzi e Gentiloni. È Ministra dell'Agricoltura del Governo Conte II e capo delegazione del partito Italia Viva.