Qualcuno lo chiamò “terzo pollo”, con due elle. Tempi lontani, addirittura la Prima Repubblica: erano i cosiddetti “laici”, socialisti, repubblicani, socialdemocratici e liberali, che cercavano spazio tra le corazzate comunista e democristiana. Il “pollo” non quagliò ma qualcosa rimase nella gola asciutta della politica italiana. Perché la ricerca del Terzo Polo assomiglia a un bisogno insoddisfatto, un’ambizione sbagliata, un’ansia intellettuale o a una scorciatoia per il potere. In ogni caso il problema è che non si è mai capito come si fa, come funzioni: infatti non c’è riuscito nessuno. Nel paese di Coppi e Bartali, persino loro simboleggianti la Dc e il Pci – una delle prime stramberie del marketing propagandistico – lo spazio tra le due chiese è sempre stato il vicolo stretto della politica e quanto ai suoi affaticati costruttori c’è da dire che tutti furono accomunati da un frenetico attivismo presto sfociato nelle rissosità tra i “polli” e nell’inconcludenza organizzativa.

Quando l’Italia andò bipolarizzandosi nei modi che sappiamo, con Berlusconi incombente e la sinistra a corrergli dietro, il tirarsi fuori dalla tenaglia non fu coronata da successo. Anzi, fu la causa del disastro: chiedere a Mariotto Segni che con quel signore di Mino Martinazzoli s’inventò il disallineamento rispetto alla “gioiosa” sinistra e alla strabordante novità di Forza Italia, che ovviamente vinse anche grazie al mancato accordo tra Occhetto e i sopra nominati eredi della Democrazia cristiana. Il Patto Segni vivacchiò in Parlamento ma mai nel paese, e questa è un’altra costante del terzismo politico, molto palazzo e zero società, forse perché essere terzi è logorante, poco attrattivo. Anche faticoso, per i professori e i newcomers di vario conio. Due anni dopo, nel ’96, l’Ulivo corresse l’errore e vinse – stavolta si erano spaccati gli altri, perché Bossi si era messo in testa di portarsi via il Nord – accordandosi coi moderati, popolari e Lamberto Dini.

E poi è andata bene o male sempre così, con i due poli incespicanti di fronte alla difficoltà di governare il Paese e perennemente nervosi al loro interno, sempre con qualcuno che prova a mettersi in mezzo, nel 2001 toccò a Sergio D’Antoni – benedetto nientemeno che da Giulio Andreotti – che racimolò un inutile 2%. Si era in attesa di uno “scongelamento del berlusconismo”, come lo chiamava Francesco Rutelli, che in realtà come Godot non arrivò mai sul serio. E proprio Rutelli a un certo punto – refrattario al Partito democratico ove mai entrò – cercò un accordo con il moderato per definizione, Pierferdinando Casini, e uno scalpitante Gianfranco Fini dopo l’immortale scena del “che fai, mi cacci?” dell’aprile 2010 (lui in piedi con il dito alzato en face al Cavaliere).

Fallita anche la dimenticata Api rutelliana e il patto con Fini e Casini, nel grande disordine nel quale Giorgio Napolitano cercava di ridare un senso al tutto, apparve sulla scena Mario Monti che con il suo loden pareva portare in Italia – in Italia! – un tecnicalità british appena velata dalle lacrime della professoressa Fornero e, imbarcata un po’ di gente prevalentemente seria e seriosa, alla Corrado Passera, mandò la sua Scelta civica alle elezioni del 2013 raggranellando un buon 10% che – se storicamente evitò l’ennesima vittoria di Berlusconi – dal punto di vista del racconto mediatico fu un fallimento: dopo qualche anno il Professore, additato come un affamapopolo, raccolse il loden e si tirò da parte. Scelta civica fu bullizzata in vario modo, anche volgarmente (“Sciolta civica”), non era una macchina buona per il rally politico essendo una carrozza d’altri tempi. Tuttavia quel sentore di competenza e persino una certa gestualità accademica sono scivolati come polvere dal loden montiano finché non arrivò l’ultimo salvatore extra ecclesiam, Mario Draghi, che conoscendo come va il mondo non s’imbarcò in avventure partitiche ma preferì fare una cosa più “semplice”: governare il Paese tra crisi, guerra e pandemia.

Intanto c’era stato un imprevisto terzismo in salsa circense, il grillismo che scombussolava la politica fuori da ogni categoria che non fosse quella del populismo erede di una cosa di decenni prima. È un fatto di lunga durata, meno effimero di quanto si pensava, che tuttora gioca alla politica pur essendo un’incognita (o forse proprio grazie a questo) come il pensiero del suo leader, l’avvocato Conte. Anche le Cinque stelle evocano il bisogno di qualcos’altro, però non va confuso con il terzismo politico e di governo che è quello che scaturisce appunto da Scelta civica (Carlo Calenda) e dalla clamorosa avventura di Matteo Renzi, clamorosa nel senso della rapida scalata a un partito strutturato come il Pd, il botto del 40% e l’altrettanto veloce discesa verso altri lidi: appunto, terzisti. I due, Renzi e Calenda, tra mille salti mortali nell’agosto del 2022 hanno l’idea di fare questo benedetto Terzo Polo, vanno insieme alle elezioni arraffando un buon 8%; poi – come al solito e più del solito – la maledizione fulmina il progetto per ragioni insieme scrutabili e imperscrutabili, politiche e personali, e oggi siamo qui ancora a chiederci se insomma il vicolo stretto del terzismo (pur lastricato di buone intenzioni) non sembri sempre un obiettivo o troppo precoce o troppo vecchio, una cosa semplice ma difficile a farsi, un ragazzino che non trova la strada di casa mentre gli altri corrono.