Parigi è in cura dimagrante. Anche San Francisco sta perdendo peso. Così come molte altre città. E se anche Napoli prendesse un appuntamento col nutrizionista? La questione della “demetropolizzazione” è ormai posta in tutto il mondo. Ci ha pensato il Covid-19 che però ha solo dato un poderoso colpo di acceleratore al processo: che fosse in atto, si sapeva; ma che potesse assumere dimensioni così incombenti nessuno poteva prevederlo. Invece, i fatti incalzano. Due articoli apparsi su Il Foglio di sabato ci offrono un paio di interessanti aggiornamenti. Ci dicono che Google, Facebook e Twitter non hanno alcuna intenzione, dopo gli sconvolgimenti prodotti dall’emergenza sanitaria, di rinunciare allo smart working, e questo sta di fatto svuotando l’intero distretto tecnologico californiano di cui San Francisco è il fulcro. E ci dicono anche che molti parigini si sono ritirati a lavorare in altre zone della Francia, tanto che si comincia a valutare come altamente probabile il trasferimento definitivo di queste stesse persone nelle meno care Chartes e Orléans. Come si manifesteranno queste dinamiche in Italia?

Cosa cambierà nel rapporto tra centro e periferia del Paese? Difficile dirlo, ma intanto possiamo guardarci intorno e cercare di definire la prospettiva con minore approssimazione. A Napoli, nella dimensione metropolitana, la questione di un riequilibrio tra città e provincia è stata per decenni all’ordine del giorno, fino a quando, per lo scarso interesse dimostrato dall’élite urbana, si è deciso di lasciar perdere. Con un doppio danno: per la città, cresciuta nell’incubo dell’assedio; e per la provincia, scivolata in un risentimento sempre pronto a manifestarsi. Dopo il lockdown, però, tutto, anche qui, spinge per una riconsiderazione. Le implicazioni sono molte. Ora che “ripensare” la forma urbana è diventata una necessità; ora che le magnifiche sorti e progressive dell’industria turistica non sembrano più tali; ora che la gestione materiale della città e dei suoi servizi diventa una prova senza precedenti, Napoli è disposta a perdere almeno una parte della sua centralità? È pronta a fare quello che non ha mai fatto, cioè a cedere funzioni urbane vantaggiose, come il nuovo ospedale che il professor Marco Salvatore ha proposto a Nord-Ovest della città?

Infine, riuscirà a non limitare le cessioni solo alle funzioni da tutti ritenute “scomode”? Un quarto di secolo fa, l’economista Ada Becchi Collidà ipotizzò di trasferire a San’Agata dei Goti, scelta per la sua equidistanza rispetto all’intera Campania, la sede del Consiglio regionale. Non se ne fece nulla, ovviamente. Dopo la crisi dei rifiuti, però, fu deciso di realizzare ad Acerra l’unico inceneritore della Campania. E quella volta, nessuno a Napoli sollevò obiezioni sulla localizzazione. Due pesi e due misure. Per quanto può durare? Nell’area metropolitana di Napoli vivono più di tre milioni di persone che costituiscono il 52 per cento degli abitanti della Campania e il 14 di quelli dell’intero Mezzogiorno.

Come ha scritto Paolo Frascani nel suo libro sul capoluogo campano, questa è “una Napoli fuori di Napoli” che attende di essere riconosciuta e coinvolta nel processo di rinascita economica e civile. Se si ha a cuore l’obiettivo di un riequilibrio territoriale, il momento decisivo è venuto. Perciò, prima ancora di decidere “cosa” la città può cedere, potrebbe risultare utile cominciare a discutere “se” farlo. La novità potrebbe venire da un atto di generosità del capoluogo a vantaggio dell’intera area metropolitana.