Raccogliere idee per la città è un’ottima idea. Specialmente in un momento come questo. Perciò è da rilanciare con convinzione l’invito di Lucio d’Alessandro, rettore di Suor Orsola, a produrne di buone, così che l’università possa poi autorevolmente inserirle in un numero speciale di “Napoli nobilissima”. Della rivista, cioè, che Benedetto Croce e Salvatore Di Giacomo fondarono nel 1892, nel vivo dell’operazione Risanamento, proprio in un altro decisivo momento di riprogettazione della città.

Anche il Riformista, in questi giorni, ha provato a suggerire qualcosa di utile: dalla mappatura dei nuovi bisogni dei quartieri, per appianare troppe diseguaglianze di oggi; all’ipotesi, sull’esempio di Parigi, di una città “del quarto d’ora”, con tutto ciò che serve a vivere dignitosamente a portata di mano; passando per la valorizzazione degli spazi (Molo San Vincenzo) e delle piazze (quella del Mercato potrebbe funzionare benissimo) per creare alternative al lungomare sovraffollato. Ma d’Alessandro ha fatto riferimento anche alla Napoli illuminista di Antonio Genovesi che con le sue lezioni di economia civile ispirò all’Europa, e non solo, modelli alternativi di governo delle risorse. Una ragione in più perché le nuove idee per Napoli non siano solo di natura architettonica, ma si misurino anche con questo particolarissimo problema: viste, tra l’altro, le pessime condizioni in cui versano le casse di tutti i Comuni italiani, e ancor di più di quelli pre-dissesto come il nostro.

Ciò vuol dire che prima che saltino tutti i servizi urbani, dalla gestione dei parchi alla raccolta dei rifiuti, bisogna subito inventarsi un nuovo modello di gestione della città. E qui, parlando di Napoli, balza subito agli occhi non già una generale immobilità della città, quanto piuttosto – ha ragione chi queste cose le studia da tempo come Raffaele Fiume – un clamoroso “gap” tra una Napoli che propone e un’altra che non dispone; tra un’iniziativa privata che ha provato più volte “a fare” e un’amministrazione pubblica che si è invece specializzata nel “disfare”: ora opponendo ostacoli, ora affossando o mortificando. Solo qualche esempio di interventi proposti e mai definitivamente accolti: il “Regno del possibile” (1984), il “Porto di Vigliena” (2006), l’“Insula dell’antica dogana” (2012). Tutti progetti in cui il privato suggeriva soluzioni tecnico-gestionali e il Comune avrebbe dovuto assumere invece ruoli puramente regolatori. Nulla di fatto. E Il risultato è che Napoli è finita in dissesto nel 1993, ne è uscita nel 2006, e cinque anni dopo è ripiombata nella stessa situazione di prima, aggravatasi in modo esponenziale con l’avvento delle amministrazioni de Magistris.

A questo punto l’unica via di uscita potrebbe essere quella del ricorso ai poteri commissariali, tanto più che anche a Napoli qualche esempio positivo ci sarebbe: le opere pubbliche avviate per il “G7”, nel 1994 e la ristrutturazione del San Carlo, nel 2009, quando il teatro fu ristrutturato in solo cinque mesi. Tuttavia, proprio sul fronte dei poteri straordinari, Napoli deve oggi misurarsi con un clamoroso paradosso. Il progetto più ambizioso tuttora in corso, quello della rigenerazione dell’area ex industriale di Bagnoli, è affidato – in quanto braccio operativo del commissario – a Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia; lo stesso Arcuri che si sta occupando ora anche dell’emergenza virus. E risulta davvero difficile credere che chi ancora non è riuscito a procurare le mascherine anti-Covid possa ora, non avendolo già fatto in questi anni, portare a termine un progetto che si trascina da oltre un quarto di secolo.