La città del futuro? Intervistato dal Corriere della Sera, Stefano Boeri l’ha immaginata così. “Dobbiamo puntare su città che vivranno per borghi autosufficienti, dove tutto quello di cui avremmo bisogno starà a 15 minuti a piedi da casa“. Per l’autore del “Bosco verticale” di Milano, la città post-emergenza sarà dunque senza smisurati luoghi di incontro e avrà servizi distribuiti su tutto il territorio, per limitare le concentrazioni e gli spostamenti di massa. Oggi è naturalmente l’emergenza virus a rendere più urgente una simile soluzione: e può tornare utile anche il recente progetto della sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, chiamato appunto “La ville du quart d’heure”, la città del quarto d’ora.

Ma proprio per questo fa un certo effetto ricordare che una città come quella prevista da Boeri, e ancora prima dalla sindaca di di Parigi; una città di “borghi autosufficienti”, fu progettata – cioè disegnata nei minimi dettagli, con tanto di dati e rendering – proprio qui a Napoli. E non ieri o l’altro ieri, ma otto anni fa, cioè prima del Covid-19, delle mascherine obbligatorie e del lockdown, quando ancora non si parlava in modo così insistente di crisi della forma urbana. Tant’è che The new urban crisis, il libro di Richard Florida che ha riformulato il problema per il grande pubblico, è del 2017, cioè di cinque anni dopo. Nell’ipotesi napoletana, però, il riferimento non erano i borghi medievali, bensì le “insulae”, i primi condomini popolari di epoca romana.

Una differenza di sostanza rispetto ai tradizionali piani di rigenerazione urbana era invece questa: l’intervento non si limitava all’aspetto visibile, ai mattoni e all’asfalto, ma si spingeva molto più in là, fino a entrare in una dimensione solitamente poco frequentata dalle archistar, quella gestionale. In altre parole, il progetto “Insula” non indicava solo cosa fare dal punto di vista urbanistico e architettonico, ma spiegava anche come farlo e come amministrarlo. Purtroppo, dai tempi del terremoto, un’idea del genere, a Napoli, è stata prospettata, su iniziativa privata, troppo poche volte: la prima, ormai archiviata come un’operazione mitica per complessità e imponenza, nel 1984, con il “Regno del possibile” di Enzo Giustino, avanzata per la rigenerazione dell’intero centro storico.

E quasi mai queste idee, nate dall’aggregazione di competenze assai diverse, ma solitamente contestate in nome di una intangibilità assoluta della città, sono poi diventate “cose”; hanno cioè trovato il contesto politico-istituzionale capace di raccoglierle e di svilupparle. Ma questa è un’altra storia: riguarda la debolezza della politica locale, raramente capace di far dialogare il pubblico con il privato, di misurarsi con le contestazioni e di mettere insieme tutte le varie forme dell’innovazione, da quella tecnico-ingegneristica a quella giuridico-amministrativa. Se ora parliamo del progetto Insula – chiarendo in premessa, a scanso di equivoci, che l’imprenditore proponente, Alfredo Romeo, proprietario dell’albergo posizionato al centro dell’area, è poi diventato l’editore di questo giornale – è proprio perché è di iniziative simili, a più dimensioni tecniche e culturalmente riformiste, che oggi, quando si parla di città da “ripensare”, si avverte il bisogno.

L’Insula aveva due obiettivi: rigenerare l’area della Vecchia dogana, la parte della città a ridosso del porto e alle spalle del teatro Mercadante, e sperimentare, come accennato, un modello inedito di governo urbano, una riorganizzazione della macchina comunale. L’obiettivo imprenditoriale era di prendere un’area campione di 37mila metri quadrati e di far crescere del 40%, rimettendola a nuovo, il valore commerciale iniziale di 338 milioni dell’intero complesso delle proprietà immobiliari. Come? Con garage automatici interrati, isole pedonali, rifacimento di strade e illuminazione, rimozione degli abusi, alberi, panchine e tutta una serie di interventi di decoro urbano. Con quali risorse? Ed ecco la novità, l’obiettivo riformista.

Mettiamo che l’intera insula versasse in tributi (Imu, Tarsu, canoni vari) la cifra x ( che poi sarebbe cresciuta con il valore degli immobili). Bene. Da qui comincerebbe l’esperimento di gestione in loco dei servizi: non più con una macchina comunale centralizzata, con competenze spezzettate tra una dozzina di assessorati, centinaia di funzionari e migliaia di dipendenti; ma con strutture operative molto più agili ed efficienti. E da qui, con un ufficio riscossioni di prossimità, capace di riscuote davvero e su tutto, dalla pubblicità ai passi carrai, sarebbe quindi arrivata l’utilità marginale, il guadagno, da reinvestire in parte nell’insula stessa, in parte nei quartieri più deboli, e in parte per potenziare i servizi trasversali, come i trasporti e la polizia municipale.

Insomma, una sorta di federalismo comunale, se si potesse dire, se il sostantivo non provocasse oggi più di ieri riflessi condizionati e istintive idiosincrasie. Una soluzione che, se fosse stata sperimentata con successo in una realtà campione, avrebbe potuto costituire un nuovo modello di gestione dell’intera città. Oggi, invece, la qualità dei servizi è precipitata ai livelli più bassi, la rigenerazione urbana non c’è stata, idee nuove non se ne sono più viste o non sono mai state raccolte, le casse comunali si sono ulteriormente svuotate al limite del dissesto, e più volte è risuonato l’allarme della Corte dei conti e finanche della Corte costituzionale.