Per Joseph, per tutti i minori scomparsi in mare, per i loro genitori

Il Riformista ha pubblicato giorni fa il “manifesto” del Comitato per il diritto al soccorso, la cui costituzione è stata promossa da otto O.N.G. protagoniste di innumerevoli salvataggi nel Mediterraneo (e non solo) e testimoni di migliaia di morti. Lo scopo del Comitato è quello di battersi per la tutela giuridica e morale di tale attività di salvataggio, contribuendo a sollecitare tale impegno anche nella pubblica opinione, spesso sviata negli anni da interventi strumentali e vergognosi. Sia ben chiaro che non è in discussione la libertà di pensiero e di valutazione di simili fenomeni di dimensione mondiale, ma la necessità di una preliminare informazione, completa e veritiera. Sono ormai molti i giuristi che, ovunque sia possibile, spiegano efficacemente la complessa normativa internazionale e nazionale che disciplina la materia dell’immigrazione e del diritto all’accoglienza. Purtroppo, però, basta un tweet ad effetto o un titolone abbagliante per penalizzare riflessioni serene.

Qui si vuol tentare, con parole spero comprensibili, di ragionare non solo in termini giuridici ma anche usando logica, cuore e anima per ribadire che gli Stati democratici non solo non possono mai limitare il soccorso in mare ma neppure chiudere i porti o respingere i migranti richiedenti asilo o protezione internazionale, se non in presenza delle stringenti condizioni previste da leggi che devono essere conformi alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e alla nostra Costituzione. Nella prima, approvata il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si prevede tra l’altro che ogni individuo ha diritto “alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato… di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese” (art.13); ha diritto “di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”, salvo il caso in cui “sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite” (art.14); ha infine diritto “ad una cittadinanza” e a “mutare cittadinanza” (art.15).

Dunque si afferma il generale diritto alla solidarietà e all’asilo e si disegnano i confini di ogni corretta logica di sicurezza, in base alla quale tali diritti non possono essere riconosciuti a chi sia ricercato per reati commessi e a chi sia animato da fini e principi non democratici.
La nostra Costituzione che tali principi formalmente recepisce, aggiunge che “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge” (art.10) e che, essendo la libertà personale inviolabile, “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” (art.13).

Tanto premesso, e nonostante le nostre leggi nazionali non possano discostarsi da tali principi, l’abuso del termine e del concetto di “sicurezza”, diventato un brand pubblicitario, ha giustificato in Italia norme e prassi spesso inaccettabili. Come dimenticare i “pacchetti sicurezza” degli anni 2008/2009 che favorirono l’estendersi di una xenofobia incontrollata? Tacendo d’altro, basti ricordare che il 23 maggio 2008, il governo aveva varato un decreto legge intitolato «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica», poi convertito in legge, la cui filosofia appariva evidente sin dalla nuova denominazione dei Centri di permanenza temporanea per gli immigrati irregolari, che da allora e fino al 2017 si chiamarono «Centri di identificazione ed espulsione». Luoghi di una lunga detenzione amministrativa, senza colpa e reati, come se lo scopo dell’identificazione fosse solo quella della successiva espulsione, comunque tali da portare – come ha scritto un ex giudice portoghese della CEDU – a “una prassi di mercificazione e disumanizzazione dei migranti e dei richiedenti asilo…” causando loro “un perdurante danno psicologico, specialmente nel caso di minori”.

Con quel decreto, veniva anche introdotta nel codice penale la nuova aggravante, dichiarata incostituzionale due anni dopo, per i reati commessi da un soggetto che si trovi illegalmente nel territorio nazionale, pur in assenza di qualsiasi nesso tra questa condizione e il reato commesso. Veniva così trasformato «in aggravante quel che nel Diritto è sempre stato attenuante del delinquere, la povertà per esempio, ma anche la paura, il naufragio e persino la rabbia etnica quando c’è» (F. Merlo, La Repubblica). Dai “pacchetti-sicurezza” si è passati più recentemente ai “decreti sicurezza” del 2018 (con cui, tra l’altro, vennero ampliati i criteri di diniego e revoca della protezione internazionale e abrogata quella “umanitaria”) e del 2019 (con cui fu rafforzata la “politica dei porti chiusi” e prevista l’irrogazione di una pesantissima sanzione amministrativa, fino a un milione di euro, e la confisca obbligatoria del natante a carico del comandante della nave – e dell’armatore responsabile in solido – che non osservi le limitazioni e i divieti eventualmente disposti dal Ministro dell’Interno in base a nuovi poteri attribuitigli). Il 21 ottobre di quest’anno, infine, con il dichiarato intento di cancellare molte inaccettabili precedenti previsioni, è stato varato l’ultimo decreto sicurezza in tema di immigrazione: alcune regole sono cambiate, ma molti nodi sono rimasti irrisolti e sono ormai numerose, troppe, le navi delle ONG sottoposte a fermi amministrativi in porti italiani.

Ovviamente non vi è spazio in questa sede per un esame analitico dell’attuale disciplina della condizione e del trattamento degli immigrati, ma è certo che in Italia – ed anche in Europa – sono ormai evidenti anche le ricadute della globale tendenza, spesso di matrice xenofoba, a farli passare per persone che rubano lavoro agli italiani e il cui sostegno recherebbe danni al nostro sistema economico (ipotesi smentita dal X Rapporto annuale sull’economia dell’Immigrazione, diffuso il 14 ottobre scorso). O, peggio, a farli passare per criminali, enfatizzando la necessità di repressione penale fino a inventare per loro nuove condotte punibili e ragioni per non farli entrare nei nostri Stati (o per cacciarli fuori al più presto), pur se chiedono asilo o protezione da persecuzioni, in quanto sarebbero fonte di rischi per la nostra sicurezza.
Ma il dovere del soccorso in mare non può neppure lontanamente essere sfiorato da tali vergognose pulsioni e va anzi rafforzata la sequenza procedurale prevista, oltre che dalla normativa nazionale e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982, da varie altre convenzioni internazionali (tra cui quelle di Ginevra sui rifugiati del 1951 e di Amburgo del 1979), sottoscritte anche dall’Italia, in tema di soccorso e salvataggio.

In base a tale normativa i Paesi devono innanzitutto dichiarare l’area marittima di competenza denominata SAR (più ampia delle acque territoriali), e dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento e di appositi piani operativi. Gli Stati costieri devono anche costituire un servizio permanente di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea. Il primo centro che riceve la segnalazione di un pericolo per la vita umana (per esempio un natante in fase di naufragio o in difficoltà) coordina con urgenza le necessarie operazioni di salvataggio finchè quello della SAR più vicina non ne assume la direzione. Il Centro di Coordinamento competente deve allora segnalare ai soccorritori o a chi si trova in pericolo il porto sicuro verso il quale dirigere la nave che ha effettuato il soccorso.

Qui sarà quindi organizzato lo sbarco che deve avvenire quanto prima e in tempi ragionevoli. Dopo l’attracco, come da normativa nazionale, è prevista la fase di controllo medico per verificare la presenza a bordo di persone malate o portatrici di patologie infettive (cui devono essere assicurate le necessarie cure), seguita da quella dello sbarco vero e proprio che segna la conclusione del soccorso e, a partire dalle identificazioni, l’inizio della fase in cui devono essere vagliate le richieste di asilo-protezione, fino all’esaurimento delle relative procedure. Durante tali fasi, può essere limitata la libertà di circolazione e spostamento dei migranti per motivi di sicurezza e ordine pubblico da individuare specificatamente, il che significa che è inammissibile il respingimento fondato sulla mera ipotesi di rischi indimostrati, come, ad esempio, quello della presenza di terroristi tra gli immigrati o di altri pericoli e timori non seriamente configurabili.

Tutti i passaggi sin qui descritti integrano gli obblighi di soccorso in nome dei diritti umani e di accoglienza, obblighi che non sono condizionati dalla reciprocità, sicchè, in assenza di ragioni di ordine pubblico, non si può né “chiudere porti”, né indirizzare le navi giunte nelle nostre acque territoriali verso porti di altri Stati, al di fuori di accordi internazionali che solo da poco si sta tentando di formalizzare e diffondere. Va ricordato, inoltre, che un decreto interministeriale del 7 aprile 2020 ha dichiarato i porti italiani «non sicuri» per le navi battenti bandiera estera e per tutta la durata dello stato di emergenza sanitaria da Covid-19. Ma autorevoli giuristi hanno rilevato che, in tal modo, con un atto amministrativo si finisce con l’incidere su norme di carattere costituzionale, con connessi dubbi circa la sua necessità e proporzionalità.

Merita particolare attenzione, peraltro, anche la tendenza alla criminalizzazione delle navi e imbarcazioni delle ONG che, quando operano senza ostacoli e limitazioni, salvano vite umane in numero elevatissimo. Ma gli ostacoli ci sono e purtroppo crescono. Non meritano in alcun modo risposte affermazioni come quelle secondo cui quelle navi sarebbero “taxi del mare”: vanno ignorate e basta. È del tutto illogico, invece, che a fronte delle frequenti stragi in mare a tutti note, si possano accusare le ONG di creare uno stato di pericolo diffuso, così come appare debole e criticabile – in assenza di specifici e documentati elementi di prova – l’accusa rivolta agli equipaggi di navi che operano per le ONG di essere responsabili di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o di associazione per delinquere finalizzata al traffico di essere umani. Queste ultime accuse presupporrebbero che i responsabili delle ONG stabiliscano accordi con i trafficanti in base ai quali questi ultimi, prelevati i migranti/paganti dalle coste libiche o di altri Paesi, li condurrebbero in aree concordate del Mediterraneo per trasferirli sulle navi delle ONG. Se tali accordi fossero provati (il che non è sin qui avvenuto) non vi potrebbe essere dubbio sulla configurabilità di reati a carico dei responsabili delle ONG o dei Comandanti e membri consapevoli degli equipaggi delle navi soccorritrici.

La tesi prevalente è però un’altra: non vi sarebbero accordi di questo tipo tra soccorritori e trafficanti di essere umani, ma la sola presenza in Mediterraneo delle navi delle ONG spingerebbe i secondi a imbarcare i migranti in Africa e poi a lasciarli in mare, magari simulando naufragi di imbarcazioni insicure, dove potrebbero essere salvati. In tal caso, però, non pare in alcun modo possibile pretendere che le navi delle ONG si astengano dal soccorrere i naufraghi o che sia loro vietato navigare nel Mediterraneo o, ancora, che ne sia ridotto drasticamente il numero. Tutto ciò equivarrebbe a teorizzare crudeltà e insensibilità rispetto al dovere di soccorso.

Del resto, l’ipotesi di concorso in immigrazione clandestina nei casi di soccorso in mare dei migranti naufraghi e del loro trasferimento nel nostro Paese, si schianta inevitabilmente contro le cause di non punibilità di cui all’art. 51 codice penale (adempimento di un dovere) o – con maggiore certezza di applicazione – con quella dello stato di necessità, prevista dall’art. 54 dello stesso codice, secondo cui non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè o altri dal pericolo attuale di un danno grave alle persone non altrimenti evitabile. Dunque, fermo restando che chiunque risulti responsabile di reati deve essere perseguito con la massima determinazione, senza distinzione di etnia e specie se si tratta di crimini collegati a lesioni dei diritti fondamentali delle persone e allo sfruttamento del loro stato di bisogno, l’attività di soccorso in mare delle ONG merita gratitudine da parte di ogni cittadino perché – e ancora una volta cito Stefano Rodotà – la solidarietà non è un sentimento, ma un diritto. E anche un dovere, aggiunge chi scrive.

L’Europa si impegni nel coinvolgere tutti gli Stati che la compongono nelle attività di accoglimento e in quelle conseguenti, senza scaricare ogni onere su quelli costieri, ma siano puniti gli Stati che violano i principi affermati nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
E soprattutto basta con la demonizzazione dei migranti irregolari: le navi delle ONG e quelle militari ripopolino il Mediterraneo! È così che si moltiplicheranno i ponti di cui vi è bisogno e che il Papa ha auspicato. È così che ci ritroveremo dalla parte dei “sommersi” in mare e sulla terra, uniti a chi – non per sua scelta – è diverso da noi, a chi lascia la propria patria solo per la speranza di una vita dignitosa. È per questo che dedico queste parole a Joseph, ai tanti bambini tragicamente deceduti, ai loro genitori e alle migliaia di persone scomparse in mare…