La scelta di Matteo Salvini era per molti scontata, tanto che da diverse settimane la notizia veniva data per certa. Così, approfittando della ricorrenza della Liberazione, il segretario della Lega ha ufficializzato la candidatura alle elezioni europee di giugno di Roberto Vannacci. Il generale sarà presente in tutte e cinque le circoscrizioni e la Lega salviniana si è aggiudicata così un candidato che di suo potrà garantire al simbolo un ritorno di visibilità.

Al pari degli altri segretari che a loro volta hanno puntato su candidature diverse ma che in potenza presentano caratteristiche similari a quelle di Vannacci – ad esempio Marco Tarquinio e Lucia Annunziata che correranno con il simbolo del Partito Democratico – anche l’auspicio di Matteo Salvini è scardinare la resistenza di quei cittadini che con candidature più convenzionali difficilmente sarebbero motivato a recarsi ai seggi. In verità, per dirla senza giri di parole, l’ambizione malcelata è di strappare in questo modo una fetta di consensi che altrimenti molto probabilmente rimarrebbe nel limbo dell’astensionismo.

Se da un lato, però, Salvini incassando la disponibilità alla candidatura del generale Vannacci si prende tutto il merito per il risultato ottenuto, dall’altro sottovaluta le conseguenze indesiderate che questa rinuncia a correre in prima persona a favore di un diverso candidato così sovra-esposto mediaticamente può innescare sulla sua stessa leadership. Come se Salvini avesse di colpo dimenticato che l’attuale sistema della rappresentanza politica esalta, pretende e ricerca la sua addentellatura principale nella potenza delle leadership.

Proprio qualche giorno fa, su questo giornale rispondendo alle domande di Aldo Torchiaro, il professore Mauro Calise a proposito della scelta, infausta mi permetto di aggiungere, del segretario dem di togliere dal simbolo per le europee il suo nome, ha chiarito ulteriormente, come «Il verticismo è incontrovertibile, non si torna indietro. Il problema della personalizzazione non si ferma. Trump si è ripreso tutto il partito repubblicano. In Argentina hanno eletto uno che ha fatto la campagna con la motosega. Le figure dei leader che personalizzano, vincono». Per poi chiosare: «non sto dicendo che sia un bene, dico che è così. La realtà è questa. La comunicazione funziona attraverso dinamiche di personalizzazione. E questo è funzionale ad un’epoca in cui la società mediatizzata richiede una serie di protagonismi sulla scena. E indietro non si torna».

Una sentenza di terzo grado, insomma, che ha come portato naturale un’altra conseguenza che è già nei fatti. La iper-personalizzazione della politica, impone ai leader di candidarsi. Di farlo sempre e comunque, perché in questo passaggio democratico c’è il metro e l’investimento periodico della loro legittimità a governare il partito. Altresì, nella candidatura diretta, c’è anche una marginalizzazione dei possibili competitor interni. Un tempo, quando invece i partiti erano strutture pesanti (e pensanti) il segretario traeva la sua forza e legittimazione dal congresso, dagli equilibri delle correnti, mentre oggi, può averla solo dal popolo, dai cittadini votanti. Un’investitura diretta che è però esigenza degli esami permanenti.

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Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).