Se Matteo Salvini davvero vuole andare al voto ha una sola strada. Impegnarsi perché al referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari vinca il No. Quella a favore del No è una posizione radicalmente antipopulista, e dunque probabilmente conflittuale con una parte consistente dell’elettorato leghista, e anche con le strategie politiche che hanno guidato sin qui il leader della Lega. Però è la mossa del cavallo. Esistono dei momenti, in politica, nei quali i leader hanno uno scarto: sospendono il percorso lineare, semplice, lindo, banale, e sparigliano. Io ho in mente sempre la prima Repubblica, e ricordo Togliatti che accetta la monarchia e Badoglio, De Gasperi che butta fuori le sinistre dal governo, Fanfani e Moro che mentre si stava realizzando una svolta a destra della Dc (luglio sessanta) fondano il centrosinistra. Ricordo Berlinguer del compromesso storico, Craxi che decide di rompere l’unità e chiede che si tratti con le Br per salvare Moro. Ricordo il placido Cossiga che diventa picconatore.

E Occhetto che scioglie il Pci. Salvini dovrebbe provare a fare qualcosa di simile, cioè un gesto che cancelli l’immagine che si è costruito in questi anni, del demagogo che considera la politica solo una tecnica del consenso. Schierare la Lega a difesa della primazia parlamentare Ne trarrebbe, credo, molti vantaggi. Il primo vantaggio lo avrebbe, per la verità, il Paese, che forse potrebbe risparmiarsi l’umiliazione di un risultato referendario che sacralizzi la tendenza a rinunciare alla democrazia. La frustata al Parlamento imposta dalla riforma costituzionale dei 5 Stelle (meno rappresentanza, meno potere, meno visibilità, accettazione di una subordinazione ad altri poteri) può produrre danni enormi alla storia della nostra civiltà. Li sta già producendo. E può creare nuovi equilibri di potere che penalizzano, fino quasi ad annullarlo, il potere democratico, sostituendolo con la potenza della magistratura e dei potentati economici. Un No al referendum rovescerebbe questa tendenza. Restituirebbe fiato alla democrazia.

Probabilmente chiuderebbe l’epoca dell’egemonia cinquestellista sull’Italia. Il secondo vantaggio sarebbe proprio per Salvini. Non solo perché con quella scelta darebbe al suo partito un aspetto più moderno, meno rozzo, meno populista, meno reazionario. Ma perché otterrebbe effettivamente quel che vuole: le elezioni. È un anno che Salvini ci ossessiona con questa cantilena delle elezioni subito, sapendo che sono impossibili da ottenere. Impossibili perché la maggioranza tiene, impossibili perché Mattarella non le vuole, impossibili perché il Si al referendum, modificando la struttura del Parlamento, imporrebbe una serie di passaggi per la costruzione della nuova legge elettorale e delle nuove circoscrizioni, che richiederebbero così tanto tempo da arrivare al semestre bianco (che scatta più o meno tra un anno).

Benissimo: se salta il referendum, tutti questi fattori si rovesciano: la maggioranza si spacca in due. Mattarella cede. Il semestre bianco diventa una cosa lontanissima. La possibilità di andare alle urne in tempi brevissimi diventa molto concreta. E in questo modo la scelta del nuovo presidente della Repubblica spetterà al nuovo Parlamento. A chi conviene oggi – dal punto di vista dello stretto interesse di partito – andare al voto anticipato? Alla Lega e al Pd, che sono i due partiti largamente favoriti. In tutti e due i partiti finora ha prevalso il terrore di contrapporsi al super populismo grillino. Però in tutti e due i partiti la cultura prevalente è contraria all’antiparlamentarismo a cinque stelle. Si tratta solo di trovare il coraggio di dirlo. Come ha fatto Giorgio Gori, per esempio.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.