L’Italia resta un Paese ipocrita. In pochi giorni, complice la pandemia, medici e infermieri sono passati dall’essere i terminali dello sfogo per l’inefficienza della sanità a eroi senza ali. Ma questo rischia di non salvarli ugualmente dall’ennesima strumentalizzazione. Sto parlando della disposizione sullo scudo penale che, da atto di riconoscimento per lo spirito di sacrificio che il nostro personale sanitario sta dimostrando in un momento così drammatico, può diventare il salvacondotto per i veri responsabili dei mali della sanità. E sì, perché c’è una bella differenza tra scudo penale e deresponsabilizzazione. In questo periodo così drammatico, dirigenti, medici e infermieri sono stati costretti a compiere delle scelte terribili che probabilmente nessuno di loro avrebbe mai creduto di dover fare. Pensate ai racconti sussurrati a mezza voce in queste settimane su coloro che sono stati chiamati a scegliere chi salvare e chi “sacrificare”.

Decidere a chi assegnare un respiratore, non avendone a sufficienza per tutti, vuol dire questo: disporre della vita e della morte dei pazienti, lasciando al loro destino i più fragili per consentire agli altri, solo perché più forti, di continuare a vivere. Ogni giorno di più, il velo sulle tante “scelte di Sophie” cade e scopre che, per esempio, nei momenti di maggior afflusso nelle terapie intensive, alcuni pazienti oncologici gravi non sono stati nemmeno rianimati. Quelli che hanno dovuto scegliere, però, non erano angeli della morte, ma donne e uomini, loro stessi in lotta per vivere. Sono già oltre 12mila i sanitari contagiati e, di questi, sinora hanno pagato con la vita il prezzo del dovere 87 medici e 25 infermieri. Per queste persone non ci può essere esitazione nel prevedere, per legge, l’esonero dalla responsabilità civile e penale, al netto di quelle per dolo e per colpa grave.

Questo Paese l’accorda da sempre ai magistrati, spesso – ed è assai amaro dirlo – per molto meno. Però una cosa è scongiurare cause, magari temerarie, contro chi si è speso, con gli strumenti che aveva, per salvare vite umane dando il suo contributo nella battaglia contro il Coronavirus. Un’altra è coprire coloro che hanno la responsabilità della gestione del sistema sanitario. Anzi, è moralmente inaccettabile provare a farsi scudo del medico o dell’operatore sanitario in corsia per liberare chi, dal ponte di comando, si è reso responsabile di ritardi e omissioni che ora sono costati cari al Paese. Perché, se è comprensibile pensare a una maggiore tutela nell’esplosione dell’emergenza, non altrettanto si può concepire per le condotte omissive o dolose che, realizzate per anni, hanno ora esposto il personale a lavorare in condizioni limite, fino a provocare lesioni o morte evitabili tra loro e ancor di più tra i pazienti.

Non si può consentire l’ennesima sanatoria per consentire al sistema di potere – che, a livello nazionale, determina le scelte della sanità e, a quello regionale, governa le aziende sanitarie e le strutture ospedaliere – di scaricare le proprie responsabilità sui singoli medici. Al contrario, questa dev’essere l’occasione per una riflessione approfondita che permetta di stabilire cosa è successo in questi anni nella gestione della sanità pubblica. Una cosa è risparmiare a chi oggi è al “fronte” l’incubo delle cause che alcuni studi legali si offrono di fare domani, speculando sul dolore di chi ha perso in un modo orribile un suo caro, un’altra è approfittare della fatica e dello stress per un’amnistia generalizzata delle responsabilità.

Se oggi in Campania più che altrove – per parlare direttamente di casa nostra – ci sono donne e uomini contagiati perché mandati a “combattere” senza nemmeno guanti e mascherine, è colpa di qualcuno, non del destino. Esistono delle responsabilità che, se fossero condonate per decreto, suonerebbero come un oltraggio per coloro che, generosamente e sapendo a quali rischi andavano incontro, non si sono tirati indietro. Iniziare a cambiare le regole del gioco, senza trucchi, è il minimo che possiamo fare di fronte ai sacrifici e alle sofferenze di tanti.