Il terzo dei quesiti referendari in materia di giustizia è volto ad ottenere che anche ai membri “laici” dei Consigli Giudiziari, cioè avvocati e professori universitari, sia consentito di partecipare attivamente alla valutazione dell’operato dei magistrati del distretto. Tale valutazione costituisce, successivamente, la base delle decisioni assunte dal Csm in tema di progressione in carriera. Oggi, la componente laica è esclusa dalle discussioni e dalle votazioni concernenti tale materia.

Con il referendum, dunque, si intende giungere a valutazioni più attendibili, limitando la logica corporativa, che inevitabilmente discende dalla appartenenza alla medesima categoria di controllori e controllati. Della logica corporativa, che, sinora, ha dominato tali valutazioni ha dato conto, nel mese di ottobre, la ministra Cartabia, la quale, in risposta ad una interrogazione dell’on. Costa, ha riferito che le valutazioni positive sono state, negli ultimi anni, il 92% del totale. Di fronte a una tale percentuale, ha avuto buon gioco Tiziana Maiolo, su questo giornale (20 ottobre), a mettere in rilievo l’incongruenza del numero modestissimo di valutazioni negative (appena 35 nel quadriennio 2017-2021), a fronte non solo delle rivelazioni fatte da Palamara, ma anche di quanto sta emergendo a seguito della faida scoppiata nella sola procura di Milano in relazione ai verbali di Amara. A sua volta, Giuseppe Di Federico, ancora su questo giornale (29 ottobre), ha sottolineato, avendo letto i verbali del Csm dal 1959 al 2017, che «la grande maggioranza dei pochi magistrati che il Csm non valuta positivamente sono quelli che hanno ricevuto gravi sanzioni disciplinari, a volte connesse a procedimenti penali».

Ben venga, dunque, un quesito referendario volto ad ottenere una valutazione più affidabile e meno corporativa dei magistrati. Avendo la consapevolezza, tuttavia, che il tema affrontato è di estrema complessità e che non sarà un eventuale successo del referendum a dire una parola definitiva sulla questione. Sino agli anni ‘60, la progressione in carriera dei magistrati avveniva attraverso una sorta di cooptazione, avendo un ruolo decisivo i componenti della Corte di Cassazione, siccome determinanti nelle commissioni di avanzamento. Negli anni ’60, attraverso la legge cd. “breganzina” prima e la legge “breganzona” poi (dal Dc Uberto Breganze che ne è stato il proponente), la progressione in carriera dei magistrati è divenuta pressoché automatica, nel senso che è consentito a tutti, con l’avanzare dell’anzianità, di raggiungere i gradi (e gli stipendi) più elevati, in assenza di valutazioni negative. La selezione si è così spostata dall’avanzamento nel ruolo al diverso tema dell’attribuzione delle funzioni effettive, che, come ha riferito Palamara, è divenuto il terreno di intervento delle correnti, essendo la promozione ormai assicurata a tutti. Di fronte a maglie così larghe, che non hanno eguali in altri comparti dell’impiego sia pubblico e sia privato, eccetto quello dei docenti (titolari, peraltro, di un trattamento economico decisamente inferiore), è facile scandalizzarsi ove non si tenga conto delle ragioni che, negli anni ’60, indussero il legislatore a prevedere un automatismo di carriera.

In quegli anni la questione centrale in Italia, nel mondo del diritto, era quella di stabilire se i principi dettati dalla Costituzione repubblicana dovessero trovare diretta ed immediata attuazione anche attraverso l’opera dei giudici o se dovesse attendersi l’opera di adeguamento del legislatore. Il dibattito, in cui spiccò in dottrina il contributo di Pietro Perlingieri volto ad offrire una rilettura in chiave costituzionale del codice civile, vedeva larga parte della magistratura di merito schierata a favore della prima opzione, mentre la Cassazione esprimeva, in prevalenza, una posizione molto più prudente. Continuare ad attribuire, perciò, un ruolo decisivo ai magistrati della Cassazione rispetto alla progressione di carriera avrebbe significato ostacolare una più immediata e completa attuazione dei principi costituzionali nell’ordinamento italiano. A questo deve aggiungersi che, come all’epoca si sottolineava, erano lo stesso valore dell’indipendenza di ogni singolo giudice e la pari dignità della funzione del giudicare, che respingevano una progressione condotta con criteri selettivi, che avrebbero potuto facilmente prestarsi a condizionare l’attività dei magistrati. Quelle riforme, dunque, al di là delle spinte corporative, che pure vi sono state, avevano l’obiettivo di rendere l’ordinamento giudiziario più coerente con il dettato costituzionale.

È necessario, allora, dire con chiarezza che se, da un lato, il sistema vigente si è prestato a troppi abusi per essere mantenuto inalterato, dall’altro, quelle esigenze che ispirarono il legislatore degli anni ’60 continuano ad essere attuali e meritevoli di tutela. Se, quindi, appare assolutamente necessario che lo spirito corporativo, che oggi innerva il sistema di governo della magistratura, sia contrastato, questo deve avvenire nel rispetto di quelle esigenze che ispirarono le riforme citate. In questo senso, la estensione anche ai membri laici dei consigli giudiziari del potere di incidere sulle valutazioni appare una misura coerente con la finalità perseguita e che certamente non mette a repentaglio il valore dell’indipendenza della magistratura.

Occorre, tuttavia, svolgere anche un’altra considerazione. La connessione tra giustizia e politica, che è divenuta dominante a partire da Mani Pulite, ha finito con il distorcere, per quello che qui interessa, i criteri di valutazione dell’attività del giudice, essendo troppo spesso tutto ridotto ad uno scontro tra tifoserie politicamente opposte. Tanto per fare un esempio, i magistrati che hanno dato corpo al processo sulla Trattativa, hanno alimentato una clamorosa panzana, anche sotto il profilo tecnico giuridico, o hanno meritoriamente messo il dito su una piaga purulenta? Al di là delle opinioni personali di chi scrive, non si può non prendere atto che su questo tema vi è una contrapposizione così netta ed accesa, dalla forte connotazione politica, che diventa difficile raggiungere la pacatezza che richiederebbe una tale valutazione. Ecco, allora, che sarebbe opportuno che siano esclusi dalla nomina, come laici, nei consigli giudiziari e nel Csm coloro che abbiano ricoperto ruoli nei partiti politici o funzioni di rappresentanza politica. Questo per evitare che il corporativismo che si vuole combattere sia invece rafforzato da uno spirito di comune appartenenza ideologica, che unisca togati e laici, con effetti estremamente perniciosi.

La considerazione delle ragioni a fondamento delle riforme degli anni ’60 conduce ad una ulteriore riflessione. L’automatismo della progressione economica sulla base della sola anzianità senza demeriti ha, tra l’altro, trovato legittimazione nella giusta considerazione che l’attività del giudicare ha eguale dignità a tutti i livelli. In effetti si deve rilevare che anzi, sotto alcuni aspetti, chi giudica nei primi gradi ha un maggiore potere di incidere sulla vita delle persone rispetto a chi giudica nei gradi successivi. Se le cose stanno così, non si comprende perché chi subisca una valutazione negativa non possa accedere ai livelli superiori, ma possa continuare ad arrecare danno ai cittadini nel ruolo che sta svolgendo. Sarebbe, perciò, opportuno che, quantomeno dopo una seconda valutazione negativa, quale che sia il grado ricoperto, il magistrato venga estromesso dall’ordine giudiziario e destinato ad altra amministrazione dello stato.