Secondo i più recenti dati ufficiali forniti dal Ministero dell’Interno, il numero dei femminicidi commessi nel 2021 costituisce il 40 per cento di tutti gli omicidi avvenuti nel nostro Paese. La Direzione della polizia criminale spiega inoltre che su 109 donne uccise, 93 sono i femminicidi consumati in ambito familiare, e 63 le donne che sono state uccise dal partner o dall’ex compagno. Le donne vittime di reati di genere in Italia sono 89 al giorno, e nel 62% dei casi si tratta di maltrattamenti in famiglia, sicché la violenza nei confronti delle donne cresce complessivamente dell’8 per cento.

Una vera e propria strage, le cui cause vanno rinvenute nell’arretratezza che affligge larghe sacche del tessuto sociale, economico e culturale del nostro Paese. A poco più di due anni di distanza dall’approvazione della nuova legge in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (il cosiddetto. «codice rosso») – da più parti sbandierata come la definitiva soluzione al problema – la politica è quindi costretta ad ammettere l’ennesimo fallimento delle strategie di contenimento dei fenomeni di devianza del nostro Paese, tanto che si torna insistentemente a parlare di nuove leggi e di pene ancora più severe. Proviamo a spiegare le ragioni di tale fallimento. Viene innanzitutto in rilievo l’insufficienza di un approccio in termini esclusivamente repressivi al problema della violenza contro le donne, che è invece questione che andrebbe prima di tutto affrontata sul fronte culturale e della prevenzione, nella scuola e nelle istituzioni.

La verità è che non serve – come ad esempio prevede la nuova legge – che la polizia giudiziaria riferisca «immediatamente» al pubblico ministero di qualsiasi notizia di reato di violenza domestica o di genere di cui venga a conoscenza, o minacciare più carcere e inventarsi nuove figure di reato, se poi agli operatori di polizia e ai servizi sociali non vengono forniti i poteri e le risorse necessari a consentirgli di esercitare con tempestività l’attività di prevenzione, o non si garantisce la effettività della pena e non si riescono a perseguire i reati. In realtà – e spiace doverlo dire – il «codice rosso» è l’ennesima riprova della tendenza della politica ad affrontare i problemi più sul piano burocratico e formale che su quello sostanziale. D’altra parte, è risaputo che è più facile aumentare il catalogo dei reati e agitare lo spettro del carcere piuttosto che investire maggiori risorse nella prevenzione e nelle politiche sociali necessarie a rimuovere le cause che sono alla base dei fenomeni criminali.

In secondo luogo, appare inadeguato anche l’approccio ideologico con cui la politica affronta il problema della violenza nei confronti delle donne. L’emancipazione femminile e la parità di genere sono infatti questioni troppo importanti per poterle affrontare con i soliti stereotipi da almanacco delle buone intenzioni o con asterischi, parole tronche e altre simili amenità neolinguistiche. Il genere femminile non costituisce una razza protetta, ma un patrimonio specifico e inestimabile di capacità, esperienze e professionalità da valorizzare molto di più rispetto a quanto si sia fatto finora. E questa valorizzazione passa anche attraverso un ripensamento dei rapporti interni alla famiglia, che sfugga alla rozza alternativa patriarcato-matriarcato per approdare ad un nuovo e più moderno assetto, fondato sul reciproco rispetto e su una effettiva parità uomo-donna, sancita – ancor prima che per legge – dai costumi sociali e dall’assetto reale dei rapporti politici ed economici del Paese. Non certo su contorcimenti lessicali o artifici alfabetici di orwelliana memoria.