Sono volati petardi e addirittura un piccione morto contro un gruppo di ragazzi e ragazze prevalentemente minorenni che, domenica scorsa, in pieno centro a Ferrara, manifestava contro l’affossamento al Senato del ddl Zan. Agli insulti e alle offese per aver avuto l’ardire di indossare una borsa a tinte arcobaleno sono seguiti i colpi dei botti, scanditi da un forte accento emiliano: «Conoscete Benito Mussolini? Sapete che lui vi brucerebbe tutti? Forza Benito Mussolini!». Nelle stesse ore, una donna trans di 48 anni, brasiliana ma residente in Italia, è stata aggredita sul treno Montecatini-Altopascio da un gruppo di ragazzi adolescenti che, dopo averla insultata e tentato di spegnerle una sigaretta sul viso, l’ha poi schiaffeggiata e rapinata.

Ecco cosa bisognerebbe rispondere a Natalia Aspesi che qualche giorno fa, su Repubblica, in merito all’art. 7 del ddl Zan, sollevava le sue perplessità: «Anche l’idea della giornata contro l’omolesbobitransfobia è plumbea, perché non trovarne una positiva? Quanto alla scuola in cui Zan vorrebbe fosse introdotta una cultura del rispetto e della inclusione anche dell’orientamento sessuale (e che tra i ragazzi dovrebbe esserci già), non so, non mi fiderei». Le risposte che la sinistrissima giornalista cercava non sono tardate ad arrivare ai piedi dei ragazzini di Ferrara e sulle banchine delle stazioni toscane. La “giornata positiva” della comunità Lgbtq+ – sebbene l’aggettivo svilente, manicheo e irrispettoso nei confronti di tutt* coloro che hanno perso la vita ben poco “positivamente” nelle aggressioni omotransfobiche degli ultimi anni – esiste già e si chiama Pride, il rovesciamento in pieno stile camp della vergogna in orgoglio; “quella negativa” dovrebbe invece esistere per promuovere il riconoscimento di tutte le diversità, nel rispetto e nell’inclusione di minoranze ancora oggi ingiuriate con applausi sguaiati a Palazzo Madama.

Dopo i fatti appena riportati, non pareva allora così scollata dalla realtà l’idea di istituire il 17 maggio come giornata contro i crimini d’odio su base di orientamento sessuale e identità di genere, dal momento che esistono la giornata della memoria e quella contro la violenza sulle donne, delle quali la proposta del ddl Zan fungerebbe appunto da iperonimo, senza cancellare le storie individuali. Probabilmente, anche il 25 novembre è una data troppo cupa per Aspesi. Che cosa proporrebbe per renderla più entusiasmante? Il punto di forza del disegno di legge presentato dal Pd consisteva proprio nella sua battaglia culturale, secondo un trasversale percorso didattico e – ribadiamo – senza carattere di obbligo per le istituzioni scolastiche, né statali, né paritarie, (checché ne dica il Vaticano!), che aveva lo scopo di prevenire la violenza di genere, contrastare discriminazioni e pregiudizi, instillare, proprio in quei ragazzi che evidentemente non sono così consapevoli come si crede, sani principi di convivenza attraverso la memoria.

Certamente una battaglia culturale, condotta da orde di attivisti da decenni, non si fermerà con un voto segreto, né con le scuse a nome del popolo italiano che Salvini ha rivolto a Bolsonaro in visita a Pistoia, lo stesso presidente omofobo e misogino, novello cittadino onorario di Anguillara Veneta, che naviga ancora in torbide acque nel caso dell’assassinio della parlamentare brasiliana e attivista per i diritti umani, Marielle Franco. Intanto, la battaglia culturale sarà portata avanti da chi, come Franco Buffoni, con la poesia ha sempre militato tra le fila dei diversi rispetto alla morale patriarcale, eterosessista ed eteronormativa, e che con l’ultimo saggio Vite negate, edito da Fve editori, restituisce dignità a chi è stato privato di confessare e vivere liberamente quell’«amore che non osa pronunciare il suo nome».

Richiamando fin dal titolo L’eroe negato di Francesco Gnerre, antesignano per questo genere di testi divulgativi, tra i quali non può non essere citato il dialogo tra sé e sé di Tommaso Giartosio, a proposito di omosessualità-letteratura-mondo in Perché non possiamo non dirci (Feltrinelli, 2004), Buffoni dispone di una galleria di ritratti di scrittori, compositori, atleti, imperatori e santi, vissuti in luoghi e tempi vicini e lontani, per ricostruire i confini di una storia queer che non abbiamo ereditato, perché razziata dalla furia censoria di chi ha deciso di uniformare queste vite sotto il segno del conformismo eterosessuale. Compaiono, tra gli altri, i martiri Sergio e Bacco, rei di aver ceduto all’amor sentimentale, e dunque flagellati e decapitati, per poi essere immortalati dall’iconografia con l’unione delle loro aureole intrecciate e assurti a icone del Gay Pride di Chicago nel ‘94; il compositore russo Ciaikovski, indotto a suicidarsi per proteggere l’onore dei suoi colleghi ed ex compagni giuristi, sui quali sarebbe ricaduta l’onta della sua omosessualità; i corsi e ricorsi storici della morale repressiva eterosessista che si è servita, anche in letteratura, di nipoti censori, come quelli di Shakespeare e di Michelangelo, che hanno manomesso “al femminile” i riferimenti ai giovani amori omessesuali dei due, rispettivamente nei Sonnets e nelle Rime; o al contrario, il ruolo che le nonne veramente liberal hanno avuto nell’ascesa dell’imperatore romano “drag” Eliogabalo e nella carriera dell’attore svedese Björn Andrésen, il Tadzio viscontiano ne La morte a Venezia, condannandolo a ribadire costantemente la propria mascolinità tossica.

Infine, ai vari Cicchitto, Cazzola, con i quali condivido questi spazi, e che ancora si avvalgono della fantomatica “teoria dell’ideologia gender”, fake news perpetrata dagli ambienti di destra per affrontare acriticamente l’istanza dell’inattualità del binarismo di genere, chiesta a gran voce dalle piazze di queste settimane, risponde Buffoni con una massima di Orazio: «Naturam expellas furca, tamen usque recurret» («Puoi cercare di espellere la tua indole anche con il forcone, ma quella comunque e sempre ritornerà»). E ritorneremo anche noi.