Carlo Calenda sindaco di Roma? Fate caso alla sua campagna pre-elettorale laggiù a bordo strada o sui mezzi pubblici, quadricromia che suggerisce tuttavia il bianco e nero su sfondo blu, ne scruti il viso e subito tornano in mente i versi di Pier Paolo Pasolini: «Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?». Quale storia, quali passioni, quale città?

Neanche a farlo apposta, in via Arenula, altri cartelli di sfida ricordano nuovamente la pubblica esistenza e soprattutto la volontà pervicace del nostro: subito dietro il volto in effigie di Calenda appare l’edificio barocchetto dov’era un tempo la Casa della Cultura, esattamente lì nei primi giorni di novembre del 1975 la federazione romana del Pci volle allestire la camera ardente di Pasolini. Portando lo sguardo poco oltre, ecco l’Area Sacra di largo Argentina, con il suo gattile, dove molti anni fa alcuni provarono ad avere in affido un felino bianco e nero, un silvestrino, scoprendo che a Roma è più facile, paradossalmente, avere in adozione un bimbo che non un gatto, ma questa è un’altra cosa, altra storia… E tuttavia sembra gemella delle difficoltà che, così temo, incontrerà Calenda per farsi incoronare sindaco, o semplicemente candidato al Campidoglio.

Al netto di tutti i discorsi sull’uomo, il professionista, l’ex ministro, anche di ordine dinastico, familiare, tra Ansedonia e Fregene, va altrettanto precisato che non si può non apprezzarne l’attivismo inenarrabile, il volontarismo unico, come no, la tempra di Carlo Calenda. Il personaggio politico è davvero automunito di se stesso, come dire, un girmi dei più professionali, al punto da far pensare che l’uomo in ogni suo gesto e manifestazione di volontà surclassi l’idea stessa di ambizione. Certo, fa un po’ specie immaginarlo figlio di una giovanissima Cristina Comencini, afferente in tutto e per tutto al mondo pizzuto e davvero antipatizzante dei Nanni Moretti, i gesti di una residenzialità da quartiere Coppedé, non esattamente un campione assimilabile al modo in cui la sinistra storica si manifestava in piazza al tempo di Petroselli, marcando la propria necessità di esistenza, dunque di consenso in grado di conquistare un posto apicale nelle istituzioni, in questo caso municipali.

In alternativa all’umano ordinario e sinceramente popolare, Calenda sembra avere invece sviluppato un’idea propria di spirito di servizio, sembra che è un certo punto abbia individuato in Roma, forse anche come prolungamento dell’infanzia in calzoncini corti da protagonista del libro “Cuore” grazie ai buoni auspici televisivi di nonno Luigi Comencini, paletta e secchiello, un proprio plastico in scala per mostrare talento, come già con la scatola del “Piccolo chimico” o del “Monòpoli”. Ecco che il piccolo Calenda ormai cresciuto, sembra dire al mondo: avanti, mettetemi alla prova e dimostrerò che ci so fare. In fondo c’è da apprezzarlo, perché invece di rivolgersi nuovamente a Montezemolo per un futuro lavorativo, metti, in Ferrari, l’uomo decide di affrontare un salto mortale carpiato, tanto più nell’ingovernabile Roma, ignaro forse, sempre per ambizione, che in certi casi di governo non ci sono problemi perché non ci sono soluzioni. Calenda però sembra aggiungere: ciò che manca nell’Urbe è un centro liberale, moderato, compito, viario ed eventuale, e sarà questa la mia fatica d’Ercole.

Volendo trovare un’immagine plastica, Calenda va oltremodo immaginato mentre raggiunge le ottime chiese di San Saturnino nel quartiere Trieste o piuttosto Cristo Re in viale Mazzini, quartiere di notai, avvocati rigorosamente in loden ed ex trasvolatori del Polo come l’ormai trapassato comandante Umberto Nobile, un po’ meno tra Magliana e Tor Sapienza, per chiedere voti e sostegno alla bella gente del suo rango. Pur sempre Ztl, ma giusto un passo più in là. Peccato che lo slogan “Roma, sul serio”, se letto in filigrana, accompagnato dalla sua foto da convittore a braccia conserte, sembra dire: lo so, non mi dareste un centesimo, ma io ho la tigna, non demordo.

Peccato che forse, questo gioco del dimostrarsi necessario, Calenda dovrà giocarselo fino a un estremo spareggio con molti altri, magari anche Giuseppe Conte. E qui viene in mente la scena paradossale di un film di Luis Buñuel, “Il fantasma della libertà”, quando la bambina, che tutti reputano rapita, è lì provando ad attirare l’attenzione e i genitori le rispondono crudelmente: “zitta tu, che non ci sei”. Chissà se davvero Calenda, per dirla in termini romaneschi, c’è, è anche lui lì, presente, o più semplicemente ci fa?

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate