Il reato di abuso in atti di ufficio ha una storia lunga, tormentata e -come dire – vagamente isterica. Nella sua originaria formulazione, la norma era pressoché “in bianco”: il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, al fine di acquisire un vantaggio per sé o per altri, o arrecare ad altri un danno, “abusa del suo ufficio, è punito” eccetera. Le norme penali in bianco sono una sciagura, perché sia il Pubblico Ministero che il giudice possono assegnare loro un significato ignoto al cittadino accusato di aver violato la norma medesima.
“Abusa del suo ufficio”, come è ovvio, può significare tutto e il suo contrario. Nel 1990 la norma subì una prima modifica, ma non relativa a quella sua micidiale genericità. La riforma fece solo sì che quel reato inglobasse l’abrogato interesse privato in atti di ufficio, prevedendo un aggravamento di pena se l’interesse ed il danno perseguiti dalla (sempre indeterminata) condotta abusiva fossero di natura patrimoniale. Nel 1997 la norma subì finalmente una prima, importante modifica. La esigenza di specificare, cioè di tipizzare una norma di fatto “in bianco”, ne impose finalmente la riscrittura. L’abuso deve essere caratterizzato dalla violazione di legge e di regolamenti; e la condotta di avvantaggiare indebitamente sé stessi od altri, o di danneggiare terzi, deve essere intenzionale.
I nostalgici dell’abuso d’antan (puntualmente in prima linea Piercamillo Davigo dalle colonne dell’amato Fatto Quotidiano) omettono puntualmente di ricordare perché si arrivò a quella prima riforma. Ve lo ricordo io. Quella norma in bianco fu usata dalla magistratura italiana, a partire dai primissimi anni novanta, come una clava. Le indagini per abuso in atti di ufficio impazzarono in tutto il Paese, perché attraverso di esso le Procure di tutta Italia poterono esercitare un potere di controllo pressoché assoluto sulla Pubblica Amministrazione, sulle sue stesse scelte discrezionali, sulle sue dinamiche politiche. Che poi, anni dopo, quelle indagini ed i relativi processi finissero sistematicamente (come le statistiche confermano in modo eclatante) nel nulla, essendo in larga misura il nulla, poco importa. Intanto, le sorti politiche e professionali di sindaci, assessori, giunte regionali, amministratori di aziende pubbliche in genere, le decidono le Procure.
Senonché la riforma del 1997 vide vanificati i suoi salutari intenti nel breve spazio di un mattino, perché da subito la giurisprudenza si occupò di annacquarne il senso, pur inequivocabile. Per dirne una: nella nozione di “violazione di legge” va inclusa – stabiliscono i magistrati- anche la violazione del principio costituzionale del buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97). Dunque non prendiamoci la pena di dover individuare per forza una violazione di legge specifica, come pure la legge imporrebbe: qualunque atto amministrativo che possa essere qualificabile come atto di cattiva amministrazione, torni ad essere penalmente sindacabile.
La giurisdizione penale rinunzia ben difficilmente ad un potere così formidabile quale è quello di controllare e sindacare, con la forza devastante della azione penale, la Pubblica Amministrazione. Sia ben chiaro, qui nessuno pretende, come si vorrebbe far intendere, l’impunità per i cattivi amministratori: stiamo discutendo di altro. Corruzione, concussione, peculato, induzione indebita, malversazione, fino ad arrivare all’impalpabile “traffico di influenze”, sono tutte condotte che presuppongono che il pubblico ufficiale abusi del proprio ufficio, cioè dei poteri che da esso derivano; e sono, come è giusto che sia, di già severamente punite. Non c’è nessun bisogno di prevedere una specie di norma di chiusura delle condotte di abuso, utile solo a mantenere sotto il giogo delle Procure ogni atto, ogni intenzione, ogni scelta discrezionale della Pubblica Amministrazione.
La ribellione della giurisdizione alla chiara volontà che il Parlamento sovrano espresse con la riforma del 1997 ha finito di fatto per ricostituire le condizioni preesistenti del reato di abuso di ufficio come norma penale in bianco. Al punto che perfino il Governo Conte due, dunque in pieno populismo penale, nel 2020 ha ritenuto indispensabile intervenire di nuovo, ribadendo che il reato di abuso non può mai riguardare un atto discrezionale della Pubblica Amministrazione, salvo che ovviamente quell’atto non integri condotte abusive più severamente punite (corruzione, concussione, peculato eccetera).
Il dott. Davigo se ne duole, dice che questa storia della paura di firmare che hanno i pubblici amministratori è inspiegabile, male non fare paura non avere, ed amenità simili. Ora forse capirete un po’ meglio perché il dott. Davigo se ne duole. Io intanto, faccio il facile profeta: diamoci un po’ di tempo, e cominceremo a leggere le prime ordinanze di custodia cautelare che ci diranno: un momento, ma cosa significa in realtà “atto discrezionale”? Cosa dobbiamo davvero intendere per “specifiche norme di legge”, come pretende la nuova, ennesima riforma? e saremo – come si suol dire – da capo a dodici. Accetto scommesse.
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