È già guardata con un po’ di sospetto in alcuni ambienti, la nuova ministra della giustizia Marta Cartabia. Anche se dalle toghe per ora è silenzio, e non si sa se gli uffici di via Arenula rimarranno pieni di magistrati né se ci sarà qualche nuovo ingresso dal nome significativo. Ma la cosa più insopportabile è che una donna con un curriculum prestigioso e impeccabile venga punzecchiata perché aderente a Comunione e Liberazione, e dipinta come la cocca di papà Napolitano o di zio Mattarella, come se non fosse stata capace di rimboccarsi le maniche da sola fino ad arrivare a diventare presidente della Corte Costituzionale e oggi ministro guardasigilli. La aspettano con il fucile puntato.

Aleggia nell’aria la parola “discontinuità”. E già il Fatto quotidiano ha buttato giù in prima pagina un titolo terroristico, che mette in guardia i parlamentari grillini sulla prescrizione: attenti, magari vi dà un contentino oggi per carpirvi i voti, ma poi vi frega domani. Non fidatevi, Marta non è Fofò. Certo, Cartabia non è Bonafede. Intanto perché il pensiero della ministra prima di tutto è un pensiero. Poi perché è tutto suo, e lo dicono la sua storia e i suoi scritti. Infine è un pensiero liberale, aperto, che rievoca Calamandrei e che ha anche capito che cosa vogliono dire le sue parole: «se si vuole condurre una riflessione sulla realtà dei detenuti e delle pene bisogna aver visto». E lei ci è andata, nelle carceri. Ha visto e ha ascoltato. Ha parlato con i prigionieri, toccando con mano che cosa vuol dire la pena, il fatto che è strettamente legata al processo, e il processo alle indagini prima che al dibattimento. Partire dal carcere vuol dire partire dal capire come ci si arriva, dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, dal ruolo del pubblico ministero, dalla sua carriera infilata dentro quella dei giudici. In Italia, e solo in Italia.

Ad alcuni può sembrare strano il comportamento di un membro della Corte costituzionale che non va a riverire i procuratori nelle aule bunker ma che va a visitare gli ultimi nelle carceri. Una che segue il pensiero del cardinal Martini e anche di papa Bergoglio. Una che crede in un certo percorso nell’applicazione della pena come previsto dalla Costituzione e che sa anche andare oltre. Perché nella Carta del 1948 (e anche nel codice del fascista Rocco) non c’erano i reati ostativi , quelli che equiparano un ergastolo alla pena di morte e la rieducazione del detenuto alle cerimonie di autodafé dell’inquisizione. La prima “discontinuità” rispetto alla (sub)cultura giuridica degli allievi di Davigo la professoressa Cartabia l’ha quindi già manifestata con la sentenza 253 della Corte Costituzionale del 2019, quando ha tolto ai “pentiti” il monopolio dei permessi premio, estendendoli a tutti. Una decisione molto laica, che aveva ridato uguaglianza di diritti a ogni condannato, e aveva sgomberato il campo dal concetto di peccato che, fin dai primi anni novanta, da quando i pubblici ministeri avevano aperto la stagione dei “pentiti”, si era surrettiziamente intrufolato nel nostro processo penale.

Un’altra “discontinuità” si era abbattuta sulla legge-bandiera del Movimento cinque stelle e del ministro Bonafede, la 9 del gennaio 2019 sui reati contro la pubblica amministrazione sobriamente ribattezzata “spazzacorrotti” che, insieme ad alcune piacevolezze come il daspo e il trojan, aveva introdotto una modifica all’ordinamento carcerario. Che eliminava, per determinati reati come la corruzione, qualunque tipo di beneficio penitenziario o di misura alternativa. Proprio come per i mafiosi e i terroristi. La Corte Costituzionale di Marta Cartabia ne aveva abolito la retroattività, applicando un principio fondamentale del diritto, evidentemente sconosciuto a Bonafede e ai suoi ispiratori (per quanto sottili), per cui devi sapere già “prima” quel che ti potrà capitare “dopo”.

Questo è il biglietto di presentazione del ministro Cartabia. Ora la sua giacchetta la stanno tirando da tutte le parti. Di che colore sarà il bandolo del suo programma sulla giustizia? Affronterà a testa bassa la grana della prescrizione, che è già lì pronta come un piatto caldo con emendamenti in commissione, o la prenderà alla larga? Il suo pensiero al riguardo è chiarissimo, come denunciato da Marco Travaglio nell’avvertimento ai suoi ragazzi. L’ha detto e scritto in ogni modo: «Che il processo debba avere una ragionevole durata è un principio di civiltà giuridica scritto nelle norme internazionali ed esplicitato nella Costituzione dal ‘99». Più chiaro di così. Il che non significa che il bandolo del suo programma e della sua attività sarà proprio quello.

Un bandolo è sicuro e piuttosto indolore, la riforma della giustizia civile, oltre a tutto urgente dopo la richiesta della Commissione europea ai Paesi beneficiari del Recovery Plan per la riscossione, nel caso dell’Italia, dei 209 miliardi di euro. Una riforma urgente ma anche indispensabile, visto che in Italia un processo civile dura in media sette anni e che ci sono tre milioni di procedimenti che pendono. Un’area di opacità che impedisce investimenti e accesso al credito come al mondo del lavoro.

Lasciamo quindi che la ministra Cartabia metta in cassaforte un piccolo successo, prima di arrivare al processo penale. Non stiamole con il fiato sul collo. Ma teniamo il punto fermo. Magari partendo –cosa altrettanto urgente quanto l’efficienza del rito civile- dallo svuotamento delle carceri, dove il Covid sta dilagando a macchia d’olio. Svuotare le carceri e riempire i granai, potremmo dire parafrasando un concetto famoso. Sarebbe questa la vera “discontinuità”.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.