A Vincenzo De Luca, prima o poi, qualche università dovrà consegnare una laurea honoris causa in comunicazione politica. Il presidente della Campania si è guadagnato l’accesso alla ristretta cerchia di leader capaci di polarizzare il dibattito pubblico.

In trent’anni e più di onorata carriera, da Salerno a Napoli passando per Roma, De Luca ha replicato un solo schema: scegliersi un nemico, funzionale a rinnovare per sé la narrazione di politico decisionista e anti-sistema, per poi dileggiarlo cesellando accuratamente un linguaggio per nulla convenzionale, aggressivo nei toni e spesso offensivo nelle forme. Anzi, il vocabolario deluchiano ha rappresentato, in moltissime occasioni, non tanto il mezzo quanto il contenuto stesso della narrazione del politico salernitano: apostrofare pubblicamente, in tv o sui social, nei talk-show o negli interventi in Aula, il proprio interlocutore come un «imbecille» o un’«anima morta» non è soltanto irriverente, ma è la dimostrazione che De Luca è uno che non accetta le regole d’ingaggio verbali della politica, le stesse che i cittadini non tollerano più perché le vedono come un insormontabile diaframma che li separa dalle istituzioni.

«Ma voi veramente pensate che sia ragionevole che alle elementari facciamo la giornata di riflessione sull’omotransfobia? Andate al diavolo, ma andate al diavolo», ha risposto alla giornalista che gli chiedeva cosa pensasse del ddl Zan. Ospite della Festa dell’Unità di Bologna, De Luca ha sferrato un jab al volto, già in parte tumefatto, della dirigenza del Partito democratico scegliendo però non un’offesa qualsiasi, ma una versione, all’apparenza più nobile ma non meno efficace, del “vaffa” di matrice grillina. Il suo «andate al diavolo» è una “dichiarazione di sfratto” al segretario Enrico Letta, rimasto ancora una volta sorprendentemente in silenzio più per snobismo, perché De Luca rimane “solo” un presidente di regione, che per una scelta ragionata. De Luca ha adattato al suo stile l’offesa identitaria che negli ultimi 15 anni è stata associata all’ascesa politica del Movimento Cinque Stelle e alla sua carica rivoluzionaria.

Solo che dopo tre anni e mezzo di governo, di gaffe e di sanguinosi tormenti interni, il “vaffa” ha reciso il cordone ombelicale con il M5S e così lo Sceriffo ha colto la palla al balzo e se n’è appropriato. Nel suo «andate al diavolo», però, c’è anche una quota di frustrazione per una carriera politica che sta per imboccare il viale del tramonto, nonostante i tentativi di rivitalizzarla con la proposta del terzo mandato, e che non ha mai raggiunto la vetta delle istituzioni. Una frustrazione che emerge anche da un secondo elemento: De Luca è tra i pochi politici di periferia a mettere nel mirino ministri o leader nazionali, da Di Maio a Salvini, da Letta al commissario Figliuolo. Ieri si è scagliato nuovamente contro il leader leghista accusandolo di “presentismo social, ma dimenticando che una piattaforma può essere presidiata anche senza un post diretto.

Su Tik-Tok, per esempio, l’hashtag #vincenzodeluca, raccoglie una serie di video pubblicati dagli utenti da marzo 2020, che hanno ottenuto finora oltre 12 milioni di visualizzazioni. Eppure De Luca non ha un account ufficiale, il che non gli impedisce di essere presente sulla piattaforma. Il suo è presentismo da second screen, ma che ha una pervasività affatto marginale: basti pensare che il leader della Lega, che invece ha un account da due anni, con l’hashtag #matteosalviniufficiale è a 20 milioni di visualizzazioni.

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Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).