All’inizio degli anni ‘80 esce un libro del fotografo Gabriele Basilico dal titolo “Ritratti di fabbriche”, significativamente con la prefazione del sindaco di Milano Carlo Tognoli: il libro , che contiene appunto bellissimi ritratti di fabbriche oramai dismesse, non soltanto mostra il talento straordinario del giovane Basilico, ma rappresenta una profonda riflessione sulla transizione di Milano in quegli anni.

Queste fotografie di luoghi chiaramente silenziosi, senza la pur minima presenza umana, raccontano invece – a chi sappia ascoltare -, di uomini che queste fabbriche le hanno costruite e di donne e uomini che in queste fabbriche hanno lavorato, hanno fabbricato. Parlano di come siamo arrivati a cambiare e, in fondo, delle responsabilità di costruire un futuro. Mentre Lombardia e Italia mantengono nel decennio degli anni ‘80 la medesima popolazione, Milano nello stesso periodo perde circa 250 mila abitanti! Quasi il 15 % della popolazione. Non era mai accaduto prima e credo non sia mai più accaduto dopo: è la certificazione di un cambiamento strutturale radicale.

Il peso dell’industria

Ma c’è un altro cambiamento strutturale che vale la pena di osservare e sottolineare: questa polverizzazione delle strutture produttive si accompagna a una progressiva trasformazione di molte nella forma giuridica delle società di capitale: una crescente strutturazione organizzativa. Di fondo un’altra grandissima trasformazione, evidentissima non soltanto nei numeri: il peso delll’industria nella nostra città cala vistosamente lasciando sempre più spazio e peso alle attività terziarie: all’inizio degli anni ‘90 gli addetti del settore terziario superano per la prima volta quelli del comparto industriale, ma non deve farci arrivare alla banale conclusione di una Milano deindustrializzata: non era e non è così, l’impresa produttiva a Milano manteneva e mantiene la sua centralità, pur perdendo moltissimi addetti, trasferendo “pezzi” dei propri processi all’esterno della fabbrica, e spesso fertilizzando attività produttive e terziarie appunto esternalizzate.

L’identità di sviluppo

È in quegli anni quindi che cambia il volto anche urbanistico della città, che si diffonde il modello di continuità d’impresa, da Milano verso e insieme alla dimensione metropolitana e oltre, il capitalismo molecolare descritto e analizzato con profondità da Aldo Bonomi. L’industria produttiva lascia Milano per moltiplicarsi nella città diffusa esterna: lo stesso avviene ed avverrà del settore terziario. In conseguenza di questi cambiamenti appena accennati, Milano ha perso abitanti, ma ha definito ancora una volta una sua identità di sviluppo: ma se questo sviluppo è stato possibile, non credo si debba soltanto fattori esogeni, alle tecnologie, eccetera, tutt’altro. L’economia della conoscenza è sempre stata ben radicata a Milano, le istituzioni riformiste e la cultura riformista hanno consentito di creare e supportare relazioni tra mondo economico e comunità, certo con momenti di crisi vistosi e in qualche caso non sempre superati.

Milano da bere

Negli anni ‘80, pur con tutti i fenomeni sgradevoli di yuppismo, i cambiamenti strutturali che hanno reso Milano uno dei centri di attrazione nel mondo hanno trovato un tessuto amministrativo, ancor meglio politico, che ha permesso di consolidare il legame tra sistema formativo, impresa e società. Qualcuno pensa che Milano sarebbe diventata la città della moda e del design se Moisè Loria non avesse creato alla fine dell’800 la Società Umanitaria? O se la Camera di Commercio di Milano parecchi decenni prima non avesse proposto la creazione di un’istituzione capace di promuovere “l’incamminato progresso delle arti e de’ mestieri in Milano (la Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri)”? In quel decennio chiave, è stato possibile assecondare queste imponenti trasformazioni attraverso stimoli e regolazioni, indirizzare la città verso la crescita del settore formativo e della cultura tout-court: ridurre in modo spregiativo quel decennio allo slogan “Milano da bere” è un insulto al buon senso e ai dati che ostinatamente pretendono di essere conosciuti.

Alberto Meomartini

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