Le performance dei Tribunali
Amnistia e meno reati: così la Corte d’appello può rinascere

Sono dieci su 29 i distretti di Corte di appello in cui la durata dei procedimenti penali supera i due anni di tempo che la riforma della giustizia assegna come limite per la definizione, pena la dichiarazione d’improcedibilità. Tra questi, al primo posto figura la Corte di appello di Napoli che, dalla specifica classifica pubblicata da Il Sole 24 Ore, a fine 2019 aveva 54.542 procedimenti pendenti, seguita da quella di Roma con 49.226 e da Bologna, con 18.948. A Napoli, dunque, pendeva circa il triplo dei procedimenti del distretto classificato al terzo posto; al distretto partenopeo spettava il primato anche per il tempo di definizione dei giudizi di secondo grado con 2.031 giorni, poi Reggio Calabria con 1.645 e Catania con 1.247 (nonostante questi avessero meno procedimenti pendenti di altri distretti, rispettivamente 6.741 e 13.582). Roma e Bologna, infatti, si attestavano al quarto e quinto posto con 1.142 e 823. I dati riportano cifre che vanno lette per difetto, in quanto, nel 2020/2021, con il blocco totale dell’attività giudiziaria dovuto all’emergenza sanitaria e la successiva riduzione della stessa dopo la ripresa, le pendenze sono notevolmente aumentate. Sono cifre da capogiro e non a caso il giudizio di appello è stato definito un “malato terminale”.
Il distretto di Corte di appello di Napoli, dunque, è quello con maggiore sofferenza. Occorrono in media più di cinque anni per definire un giudizio di appello. I concorsi interni per accedere alla Corte vanno deserti perché i magistrati sono consapevoli che il carico di lavoro è enorme. Il presidente è costretto a inviare in appello giovani toghe che dovranno poi valutare il lavoro di colleghi più anziani ed esperti. Non a caso la ministra Marta Cartabia sarà in città martedì prossimo e si recherà al Palazzo di Giustizia per verificare la situazione incontrando i vertici istituzionali.
Certo, sono dati che dovrebbero scoraggiare il progetto di riforma, ma la strada intrapresa è quella giusta ed è, finalmente, in linea con i principi costituzionali. Prima fra tutti la ragionevole durata del processo e subito dopo la presunzione di non colpevolezza. Si sta per passare dalla tragica fase dell’imputato “per sempre”, dovuta alla riforma Bonafede sulla prescrizione, all’assunzione di responsabilità dello Stato chiamato al rispetto di tempi che in un Paese civile dovrebbero essere la normalità. Tra l’altro, in ben 19 distretti di Corte di appello, il termine di due anni è già rispettato e, in Cassazione, la maggior parte dei procedimenti si chiude entro l’anno di pendenza. Occorre rafforzare la macchina giudiziaria laddove vi sono guasti fin troppo evidenti. La disponibilità di risorse dovrà consentire l’assunzione di magistrati e cancellieri in quegli uffici più critici. Ciò comunque non basterà a eliminare l’enorme arretrato e a gestire il nuovo.
Imprescindibili per l’attuazione del “giusto processo” sono, ancor prima dell’annunciata riforma, una concreta depenalizzazione di fattispecie che non hanno alcuna rilevanza penale, l’amnistia e l’indulto. Solo l’eliminazione di gran parte dei fascicoli pendenti, consentirà di andare a regime con i principi della riforma. A coloro che sono contrari all’amnistia, perché rappresenta la resa dello Stato che non riesce a giudicare, va risposto che ciò, di fatto, già avviene in molti casi, ma con evidente disparità di trattamento. Perché, al giorno d’oggi, essere giudicati a Napoli o in altri luoghi, purtroppo, fa la differenza.
© Riproduzione riservata