Il dibattito interno al Pd e sul Pd presenta aspetti paradossali. Il Pd sul piano numerico ha perso molto meno voti del M5S e anche della Lega e di Forza Italia. Però, diversamente da essi, è entrato in una crisi nera. Qual è la ragione? A parte il fatto che nella Lega Salvini e in Forza Italia Berlusconi controllano in modo quasi totale i rispettivi partiti per cui non emergono contestazioni consistenti, c’è una ragione politica di fondo in tutto ciò. Il M5S a sua volta pur avendo perso la metà dei voti sembra stare sulla cresta dell’onda.

Il fatto è che Conte, nel suo trasformismo spregiudicato, non solo è riuscito a fare del Movimento il suo partito personale ma ha trovato anche una via politica collocata tutta sulla sinistra dopo essere stato il premier di un governo di destra e quello di un governo di centrosinistra egemonizzato dal Pd. Adesso Conte ha trovato una prateria, che percorre coprendo gli spazi lasciati eventualmente liberi dal Riformismo e dall’europeismo-atlantismo del Pd. Conte sta dando vita a un movimento populista di sinistra, falsamente operaista, giustizialista che sul terreno della politica estera fa da sponda al putinismo.

A loro volta la Lega e Forza Italia, pur avendo perso circa metà dei voti, si ritrovano in uno schieramento, quello di centrodestra, che trainato dalla Meloni, ha stravinto le elezioni. E quindi stanno lì lì per spartirsi il potere in occasione della formazione del nuovo governo di centrodestra. Invece il Pd si ritrova nella situazione opposta cioè quella di un partito che ha perso pochi voti ma che invece ha subito una sconfitta politica secca. L’ha subita da parecchi punti di vista, sia per problemi di fondo attinenti alle origini, sia perché la sua forma partito attuale fa acqua da tutti i punti di vista, sia per gli errori commessi nella fase pre elettorale.

Certo è che il dibattito nel Pd non è cominciato affatto bene. Taluno, come Bindi, Bertinotti ma specialmente De Benedetti, sta sostenendo la tesi secondo la quale il Pd si deve sciogliere. Ciò si intreccia con l’attacco che Conte sta lanciando nei confronti di Enrico Letta e del Pd. Il rischio è che dalla finestra non venga gettata l’acqua sporca (l’ambiguità costituita da un intreccio confuso fra Riformismo e populismo assistenzialista e massimalismo), ma proprio il bambino cioè la quota di Riformismo, di europeismo, di atlantismo, di solidarietà con l’Ucraina portata avanti da Enrico Letta pur fra mille contraddizioni.

A nostro avviso, sul Pd hanno pesato due questioni di fondo. La prima è costituita dal fatto che il Pds a suo tempo ha scartato la proposta avanzata dalla sinistra del Psi e dai miglioristi di dar vita ad un grande partito socialdemocratico e riformista. La scelta opposta fatta, sia pure con sfumature diverse, da Occhetto, D’Alema, Veltroni, è stata inserirsi nella operazione fatta decollare dai poteri forti quando hanno ritenuto che, poiché il pericolo comunista era finito, allora essi potevano ritirare la delega fatta alla Dc e al Psi di poter gestire il potere politico, anche con forti elementi di intervento pubblico in economia e con la destinazione di rilevanti risorse per lo stato sociale. A quel punto i ragazzi di Berlinguer, sia per l’originario antisocialismo instillato dal loro leader, sia per preservare il partito dalla bufera di Mani Pulite, hanno scartato ogni ipotesi di unità socialista e anzi hanno cavalcato l’obiettivo di distruggere il Psi per prenderne il posto, dando vita ad un partito giustizialista, neoliberista, impegnato totalmente nelle privatizzazioni, e tutto governista, anche perché a ciò portava, qualora fosse riuscita, l’eliminazione del Psi.

Quando è sceso in campo Berlusconi, lo scontro è diventato fra Berlusconismo e anti Berlusconismo, uno scontro nel quale il Pds ha fatto da sponda all’avanguardia costituita dal nucleo dei magistrati di Milano. In quella fase, nella memoria di tutti, la leadership dell’antiberlusconismo fu assunta da Ilda Boccassini, mentre D’Alema e Veltroni erano dei comprimari che usufruivano dell’uso politico della giustizia. Questo peccato originale ha tagliato le gambe successivamente al Pd. Non gli ha dato il respiro culturale, politico, programmatico per svolgere un ruolo attivo e innovativo; lo ha tagliato fuori da un rapporto reale e profondo con alcuni dei pezzi più dinamici della società italiana. Paradossalmente sia dalla classe operaia sia dai settori più nuovi e moderni della imprenditoria italiana.

Di conseguenza, quando la seconda Repubblica è crollata, con l’emarginazione di Berlusconi estromesso con notevoli forzature giudiziarie e degli stessi regolamenti del Senato, si è aperta una fase nuova dove hanno trovato spazio forze che cavalcavano il populismo dell’antipolitica (vedi la nascita e il successo elettorale del M5S) e il populismo sovranista (vedi la Lega e Fratelli d’Italia). A quel punto il Pd si è trovato privo di un alleato politico serio e credibile quale sarebbe stato il Psi se non fosse stato distrutto. Inoltre in tutti questi anni, oltre ad avere scartato la socialdemocrazia, il Pd non ha fatto neanche una scelta chiara e netta tra Riformismo e massimalismo, ma anzi ha mescolato confusamente le due cose.

Per di più è venuta meno anche la forma partito originaria, quella che si fondava su una concatenazione di anelli: il centralismo democratico che non escluda il dibattito ma le correnti, accompagnato da una cura estrema per il radicamento sociale affidato alle cellule sui luoghi di lavoro e a quei funzionari di partito che non erano degli squallidi burocrati, ma delle persone dotate di cultura politica che quotidianamente lavoravano nelle pieghe della società italiana. Finito il Pci anche tutta questa intelaiatura è stata smontata ed è stata sostituita da qualcosa di molto più riduttivo, ambiguo e fragile, cioè l’organizzazione di correnti che solo pallidamente riflettevano la divisione reale fra riformisti e massimalisti e che invece fondavano la loro aggregazione sulla gestione di pezzi del potere nazionale e locale controllati dal partito.

Che le cose non andassero bene in questo sistema di potere è stato testimoniato da ciò che ha detto al momento delle sue dimissioni da segretario Nicola Zingaretti. A un certo punto anche su questo partito sono piombate due vicende drammatiche quali la pandemia e l’Ucraina. Quando in una situazione di emergenza è stato chiamato alla segreteria del Partito, Enrico Letta non ha preso di petto la scelta di fondo fra Riformismo e massimalismo e però ha cercato in via di fatto, nella scia del rigore economico e geopolitico imposto dalla situazione e perseguito con grande incisività da Draghi, che è una singolare figura di tecnico, di uomo di Stato, ma anche una personalità dotata di competenze e di una cultura politica di stampo liberalsocialista. Attraverso tutto ciò, Enrico Letta ha tentato per tutta la fase del governo Draghi di fare del Pd un partito riformista di fatto, impegnato nella realizzazione del Pnrr, nella scelta europeista atlantica valoriale di solidarietà con l’Ucraina.

Orbene a un certo punto le forze anti riformiste e populiste filo putiniste sono partite al contrattacco, non a caso guidate da Conte, a cui si è subito aggiunto Salvini con Berlusconi su di lui appiattito. Ciò ha provocato la crisi di governo e le elezioni anticipate. A quel punto Enrico Letta è stato lì lì per affrontare le elezioni con uno schieramento coerente alla costruzione di un polo riformista, lo ha fatto quando ha realizzato un patto con Calenda e +Europa, sia pure con la contraddittoria esclusione di Renzi. A quel punto, non sappiamo se Enrico Letta ha sbagliato di suo o è stato costretto da una parte del Pd, ma all’intesa con Calenda è seguita quella con Fratoianni e Bonelli, che contraddiceva del tutto la prima. Conta poco che Calenda ci abbia messo due giorni per capirlo. Così il Pd ha finito col fare l’alleanza con la componente riformista più debole, quella di +Europa e anche con quella massimalista più evanescente, cioè Sinistra e Verdi. Mentre hanno mantenuto la loro autonomia politica ed elettorale da un lato il M5S e dall’altro Calenda e Italia Viva.

Di qui la sconfitta del Pd avvenuta più sul piano politico che su quello elettorale. Esiste a questo punto un duplice problema: quello di una pregiudiziale auto definizione del Pd che indipendentemente dalle alleanze deve definire se stesso. Tutto ciò avviene nel fuoco di uno scontro politico durissimo anche dopo le elezioni. Quella che oggi è sotto attacco -da parte di una serie di forze che hanno come punta di lancia Il Fatto e Domani sul piano mediatico, Conte e il M5S sul piano politico, e Landini sul piano sociale- è proprio la parziale e contraddittoria ma positiva scelta riformista fatta Letta su Draghi per il Pnrr per il rifiuto delle politiche assistenzialiste, per l’impegno solidale con l’Ucraina. Ciò avviene mentre nel Pd ci sono forze significative che fanno da sponda a Conte e al M5S. Ma qui emerge una questione di fondo: il M5S non è una sorta di costola della sinistra ma qualcosa di molto più inquietante.

Una miscela di massimalismo populista, assistenzialismo demagogico e di filoputinismo mascherato con un pacifismo che copre l’aggressore e punta a immobilizzare l’aggredito. Non si capisce come il Pd possa realizzare una alleanza politica di fondo con una forza di questo tipo a meno di non snaturarsi. Per questo il prossimo congresso del Pd non può evitare scelte di fondo fra opposte opzioni non solo politiche ma anche ideali e di collocazione internazionale. In questo quadro è stata di grande importanza l’aggregazione di Azione e Italia Viva in una comune battaglia politica ed elettorale ed è auspicabile che diventi qualcosa di più. Cioè un autentico polo riformista, che svolga un ruolo del tutto autonomo e sviluppi nei confronti del futuro governo di centrodestra una opposizione non sgangherata ma qualificata su obiettivi coerenti e che rappresenti un punto di riferimento anche per le forze riformiste che si spera diano all’interno del Pd una battaglia coerente e netta.