Per la progettata, poi ritirata (dalla proposta di legge di bilancio) voluntary disclosure per il rimpatrio dei capitali o comunque per l’emersione di quelli nascosti al fisco, non è necessario risalire al primo condono, nell’Ottocento. Basta ricordarsi del condono della metà degli anni Settanta del secolo scorso. Allora, in relazione agli impatti del primo choc petrolifero, alle incertezze politiche, all’inflazione si verificò una enorme fuga di capitali soprattutto in Svizzera. Era il periodo degli “spalloni” che attraversavano la frontiera con sacchi contenenti banconote da depositare nelle banche elvetiche per conto, a volte, pure di informali associazioni di professionisti, i quali, spesso senza particolari motivazioni, ma seguendo un’ondata che si manifestava nel Paese, ritenevano molto più sicuri i forzieri degli istituti svizzeri rispetto a quelli italiani. Era, quello, il periodo in cui vigeva, coerentemente con la limitazione del movimento dei capitali, il divieto di esportazione dei capitali stessi non autorizzato dalle competenti autorità secondo il principio del “tutto vietato, tranne ciò che sia espressamente autorizzato”.

Di fronte alle fughe di enormi risorse, l’illegittima esportazione di capitali da illecito amministrativo, quale era considerata dalle norme vigenti, fu modificata dalla legge 159 in illecito penale con l’introduzione di pesanti sanzioni. Nel contempo, si diede tempo per il rientro dei capitali secondo il vecchio regime, prima che scattassero le norme ben più severe. Si può giudicare il condono come si vuole, anche eticamente riprovevole, ma non si può negare che esso era collegato a un cambiamento delle norme regolatrici, cosicché aveva una sua motivazione prevedere un termine entro il quale ci si potesse mettere in regola secondo il regime vigente allorquando si erano esportati i capitali. In sostanza, era il principio del tempus regit actum. I numerosi condoni decisi successivamente, fino a quelli più recenti, non hanno avuto un collegamento così netto con riforme normative più restrittive. A proposito del caso citato, per valutare la portata della modifica delle norme allora adottata, va tenuto presente che bisognerà arrivare verso la fine degli anni Ottanta per vedere introdotta la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali. Per tornare all’attualità, come accennato, era stata prevista, nei lavori per la progettazione della legge di bilancio, una nuova edizione della voluntary disclosure dei capitali. Si erano diffuse voci secondo le quali la previsione avrebbe comportato pure una sanatoria dal punto di vista penale che, però, è stata prontamente smentita da ambienti di Governo.

Poi, la premier Giorgia Meloni ha disposto – almeno così si è detto – il ritiro di questa misura dal novero di quelle progettate per la manovra. È auspicabile che non ricompaia nell’iter legislativo. La ravvicinata ripetizione di questa misura non può non fare riflettere. Ma le considerazioni valgono in generale per i condoni. Il ricorso ad essi per accrescere le entrate dello Stato riduce la percezione della certezza del diritto; accentua la differenziazione tra cittadini onesti e cittadini che si sottraggono al fisco; paradossalmente, non è un bel regalo per il gettito che aumenta nel tempo di vigenza del condono, ma poi si riduce negli anni successivi perché, soprattutto dopo lo straordinario numero dei condoni susseguitisi, si pensa che un altro ancora non mancherà, quindi non conviene mettersi in regola con il fisco. Quasi sempre si è detto, in occasione di una sanatoria, che si trattava dell’ultima: mai affermazione fu, però, più smentita dai fatti.

Insomma, ragioni di giustizia ed equità, insieme con motivazioni che attengono agli introiti dello Stato, rendono non facile accettare i condoni. Certo, lo Stato, soprattutto per particolari forme di riscossione, può implicitamente dichiararsi incapace di acquisire il dovuto; oppure, per piccole somme, andare incontro a costi che pareggiano o addirittura superano le somme riscosse. Possono essere, questi, casi a sé, ma ugualmente pongono un problema di norme e di controlli. Nell’emersione come quella delle diverse forme della voluntary” si pone, altresì, il problema della connessione delle somme che emergono con ipotesi delittuose: si pensi all’autoriciclaggio, ovviamente alla stessa evasione oltre determinati limiti, a una serie di altri reati, ivi inclusi quelli di mafia. Se, per consentire il rientro delle risorse finanziarie, si chiudono gli occhi, ne scaturisce un’immagine “simoniaca”, inaccettabile dello Stato; se, invece, non si chiudono, allora esiste un chiaro disincentivo al rientro dei capitali, anche se lo Stato non può agire diversamente, né può accordare condoni anche dei reati perché in questo caso è necessaria un’amnistia da approvare con il quorum parlamentare prescritto dalla Costituzione.

Il punto fondamentale è che si dovrebbe aprire un ampio confronto che superi anche i confini degli schieramenti politici e sociali per esaminare come, con quali misure, entro quali limiti e vincoli, fare emergere almeno una parte non irrilevante del “ sommerso” e la mole delle evasioni che, al di là delle cifre ballerine che di volta in volta si citano, comunque si aggirerebbero sui cento miliardi. Un’operazione straordinaria che, però, non potrebbe essere condotta all’insegna di un comportamento remissivo nei confronti di chi ha violato la legge e di fatto punitivo nei riguardi di chi la osserva. Lo spazio pure ci sarebbe. Ma bisognerebbe guardare, piuttosto che a dare segnali agli elettorati, agli interessi del Paese.