Che l’Italia sia il Paese delle amnistie e degli indulti è un dato inconfutabile. I provvedimenti di clemenza approvati dal Parlamento dal 1944 fino a oggi sono 34, segno evidente di come un istituto per sua natura eccezionale e legato a fattori di carattere contingente si sia tramutato in uno strumento di ordinaria gestione dei mali endemici della giustizia italiana.

Tradizionalmente, infatti, nei Paesi a democrazia avanzata amnistia e indulto seguono eventi di natura straordinaria e contingente, come la fine di un regime o di un conflitto bellico, oppure si legano a provvedimenti legislativi che segnino una radicale discontinuità col passato. In Italia, invece, tali provvedimenti clemenziali sono stati periodicamente utilizzati al di fuori di ogni logica strategica, non quindi come uno strumento a cui fare ricorso in via eccezionale, con l’obiettivo di dare una soluzione definitiva alle storiche criticità del nostro sistema penale e penitenziario, quanto piuttosto come un modo sbrigativo e superficiale per far fronte al sovraffollamento delle carceri e per sgombrare gli armadi dei giudici dai fascicoli arretrati.

Col risultato che, mentre gli effetti deflattivi dei provvedimenti di clemenza sono stati mediamente assorbiti nell’arco di un paio di anni, i problemi della giustizia penale si perpetuano almeno dal 1989, senza che nessuno si ponga seriamente il problema della riforma di un sistema nel quale amnistie e indulti sono diventati un mero escamotage per rinviare ogni decisione e far convivere obbligatorietà dell’azione penale, processo con tre gradi di giudizio e ipertrofia del diritto penale. Risultato: secondo gli ultimi dati disponibili, il numero medio dei detenuti nel carcere di Poggioreale si aggira intorno ai 2.100 a fronte di 1.571 posti regolamentari disponibili, con una percentuale di sovraffollamento pari a circa un terzo. Mentre circa 56mila sono i procedimenti penali pendenti presso la Corte di appello di Napoli, per una durata media di 1.560 giorni a processo. Numeri da far tremare i polsi, comunque tali da risultare incompatibili con la ragionevole durata del processo in un Paese civile.

Spiace doverlo dire, ma pare che neppure la prossima riforma voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia sfugga alla solita logica dell’approssimazione elevata a sistema. In particolare, non sono previsti interventi strutturali concreti per rendere le carceri più vivibili e consone alla finalità rieducativa della pena, né si intravede un serio disegno strategico per ridurre le intollerabili lungaggini processuali, al di là delle solite periodiche logiche “svuotacarcere” e “svuotarmadi”. Gli stessi rimedi ipotizzati dalla riforma Cartabia (notifiche telematiche, digitalizzazione e ufficio del processo, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, improcedibilità dell’azione penale una volta superati i termini della ragionevole durata del processo e così via), sebbene ispirati da buone intenzioni, appaiono del tutto insufficienti e non in grado di incidere sulle cause strutturali dei mali cronici dai quali è afflitto il nostro sistema penale.

A dimostrazione dell’assunto, tra le varie proposte di riforma è previsto che, in caso di irragionevole durata del processo, il condannato possa chiedere una congrua riduzione della pena e che, se la diminuzione è superiore alla pena inflitta dal giudice, quest’ultimo possa addirittura dichiararla ineseguibile. Altrimenti detto, di fronte alla acclarata incapacità dello Stato di assicurare una giustizia in tempi brevi, si prevede una sorta di “risarcimento in natura” per cui la durata della pena viene ridotta in misura proporzionale alla durata del giudizio, ovvero si rinuncia del tutto all’esecuzione della pena secondo una logica ancora una volta del tutto simile a quella sottostante le decine di provvedimenti di amnistia e indulto periodicamente adottati dal legislatore per rimediare alle incongruenze e alle insufficienze del nostro sistema processuale e penitenziario (analogo discorso è ovviamente legato ai condoni fiscali rispetto alle croniche difficoltà che incontra l’Erario nella identificazione degli evasori e nel recupero delle entrate sottratte al Fisco).

Purtroppo, fino a quando la logica del compromesso continuerà a prevalere sulla consapevolezza che la giustizia è un bene che appartiene a tutti, anche la cultura dell’emergenza – a cui è in ultima analisi legato nel nostro Paese il continuo ricorso ai provvedimenti indulgenziali – continuerà a prevalere sulla ragione del diritto e la giustizia rimarrà un insensato terreno di scontro tra le opposte forze politiche. Senza contare che il ciclico ricorso a provvedimenti di indiscriminata clemenza ha inevitabilmente indotto nella collettività la non del tutto infondata opinione per cui, alla fine dei conti, per chi si imbatte nella giustizia penale, prima o poi il problema si risolverà a tarallucci e vino. Il problema, giova ripeterlo, non sono perciò l’amnistia e l’indulto in sé, quanto piuttosto l’uso improprio e dissennato che di tali istituti si è fatto e probabilmente si continuerà a fare in Italia. A dimostrazione del fatto che, quando l’emergenza assurge a normalità, anche la certezza della pena va a farsi friggere