"Cambiarlo è possibile ma ci vuole coraggio"
“Carcere reietto: è sofferenza, discarica e perdita di valore”, intervista alla sociologa Valeria Verdolini di Antigone

Per numero di reati, per numero di persone in carcere anche in attesa di giudizio, per livello di sovraffollamento, per carenza e vetustà degli spazi, Napoli e la Campania sono in cima alle classifiche nazionali. Se a questo aggiungiamo lo scandalo dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere commessi da agenti ai danni di detenuti, e per cui c’è un procedimento penale in corso, è evidente che il tema carcere è un tema centrale. Ma che istituzione è oggi il carcere? Quali sono le funzioni che svolge e come sono organizzati i suoi spazi? Ne parliamo con Valeria Verdolini, ricercatrice in Sociologia e componente dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, che a Napoli ha presentato uno studio su questi temi contenuto nel libro “L’istituzione reietta”.
«Nella letteratura scientifica e nel senso comune si usa il termine «istituzione totale», mutuandolo da Goffman, che presuppone il carattere inglobante, che tende a coinvolgere direttamente tutte le 24 ore della persona detenuta in custodia. La mia analisi è che le trasformazioni recenti dettate da diversi fattori, come l’aumento della povertà, una certa cultura populista, una domanda più giustizialista, alcuni fattori interni come la crisi pandemica e l’aumento delle fragilità abbiano generato un incremento della conflittualità associata e fanno propendere per una definizione differente. Il modello rieducativo può essere associato solo a quella parte di detenuti che sta scontando pene più lunghe, altrimenti diventa una pena retributiva che non opera delle trasformazioni vere nelle persone».
Carcere come istituzione reietta. In che senso?
«Uso termine reietta con tre accezioni: una si riferisce al carcere che accoglie una sofferenza sociale; una seconda al carcere come discarica sociale che raccoglie persone che fanno fatica ad essere assorbite nel corpo sociale tradizionale; una terza che fa riferimento al termine reietto inteso come togliere valore, perché il passaggio attraverso il penitenziario è un passaggio che prevede anche un peggioramento sostanziale delle condizioni di vita e delle relazioni».
Rispetto al passato si sente più spesso parlare di carcere, ma le iniziative per migliorarlo appaiono ancora sporadiche, limitate e, almeno in Campania, la situazione resta critica come sempre.
«Dipende da quale angolazione guardiamo il problema. Per alcuni aspetti condivido questa lettura, per altri aspetti dobbiamo rilevare come il carcere abbia vissuto trasformazioni repentine negli ultimi anni. Pensiamo all’impatto che ha avuto la sentenza Torreggiani del 2013 (la Corte europea ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, ritenendo che le condizioni di vita dei detenuti fossero paragonabili a trattamenti inumani e degradanti, ndr) sul sovraffollamento e sulle misure di contenimento della sofferenza. La sorveglianza dinamica ha determinato una trasformazione profonda e la popolazione carceraria ha subìto variazioni significative, passando dalle 67mila presenze alle 52mila dopo la Torreggiani, per poi risalire a 62mila alla vigilia della pandemia e arrivare ai 54mila di adesso. E sono stati registrati episodi molto gravi che hanno avuto la conseguenza di sollevare l’opinione pubblica, come il caso Cucchi e il caso Santa Maria Capua Vetere».
Cosa deve intendersi per carcere che cambia?
«Una struttura che investe molto sul penitenziario e sulla relazione tra l’istituto e il contesto esterno. Parliamo di inserimenti lavorativi, investimenti sulle forme di rieducazione, misure di sostegno al reddito in uscita. Si tratta di cambiamenti che permettono di ridurre la sofferenza sociale, ma che sono dipendenti dalla condizione economica di crisi determinata dalla recessione causata dalla pandemia e, non ultima, dalla crisi del gas dovuta alla guerra. La situazione è complicata».
Molti pensano che il carcere sia un mondo a parte rispetto alla società. Eppure un legame forte e costante tra il mondo di «fuori» e il mondo di «dentro» consentirebbe di avere un carcere migliore e quindi anche una società migliore. Cosa ne pensa?
«Anche senza una visione tanto progressista del carcere, sarebbe miope non pensare che le persone attraversano lo spazio penitenziario per un tempo breve. E quello che incontrano in quegli spazi è una condizione peggiore di quella che c’è fuori, ma soprattutto una condizione che non offre chance formative, per cui quel passaggio non farà che acuire la sofferenza che diventa inutile, perché inefficace per le finalità rieducative, e uno spreco sia di tempo che di denaro. Il carcere, a quel punto, non farà quello che dovrebbe fare rispetto ai presupposti anche costituzionali e aumenterà la sofferenza sociale, diventando causa degli eventi che vuole in qualche modo combattere. Quindi è chiaro che debba esserci un dialogo tra carcere e società esterna».
C’è una popolazione che gestisce il carcere e una che lo abita. Sono davvero così diverse trovandosi a vivere in maniera coatta gli stessi ambienti con gli stessi disagi e difficoltà?
«La differenza sostanziale è che la popolazione che lavora in carcere è una popolazione libera, cosa che quella dei detenuti non è. Quello che però è comune è la sofferenza del penitenziario che viene distribuita equamente tra coloro che lo abitano».
Che scenari si prospettano?
«La pandemia, o meglio la sindemia ha una capacità di amplificazione della sofferenza soprattutto per le parti più vulnerabili della società. Non possiamo predire il furto ma possiamo leggere le tendenze che ci sono, e quel che emerge è che i prossimi saranno anni di grande sofferenza sociale. Se non ci saranno iniziative come il Pnrr ma anche come più investimenti sul carcere, che non si limitino solo alla costruzione di qualche nuovo padiglione, sarebbe importante organizzarsi con vari antidoti democratici. Ci sono già aree di riforma, c’è attenzione da parte della ministra Cartabia: speriamo che nei prossimi mesi ci sia più coraggio nel provare a cambiare il mondo penitenziario».
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