Qualche giorno fa su questo giornale veniva riportata una ampia intervista a Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone private di libertà. Le sue riflessioni mi hanno molto colpito. In realtà già da tempo aveva lanciato un allarme, accennando alla «attenuazione» della cultura che vede proprio nel «graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento». Questa volta il Garante ha ricordato anzitutto il drammatico problema dei suicidi che purtroppo non sembra smuovere nulla, e quindi il tragico e illegale sovraffollamento delle carceri. A tale proposito, dice: «[…] Sicuramente è un problema. È endemico, i numeri stanno ricrescendo. Devo dire che accanto a questo, l’altro problema estremamente grave è l’inutilità del tempo detentivo. Ci sono in carcere circa 1300 persone che devono scontare pene inferiori a un anno e circa 2500 con una pena tra uno e due anni. Per queste persone il tempo è totalmente vuoto. Spesso stanno lì perché non hanno il domicilio o l’assistenza legale, appartengono a una povertà complessiva. Se riuscissimo a portarle in altre strutture territoriali di controllo e supporto si abbasserebbero anche i numeri del sovraffollamento».

Il Covid-19 lo aveva già fatto emergere: la pandemia ha colto gli istituti penitenziari al 130 per cento della loro capienza, 10.200 persone in più. Potremmo dire che si è scoperchiata – come qualcuno ha detto – “la” questione carcere in Italia. Si è negato di fatto ai detenuti quel diritto alla salute che è un bene pubblico e inalienabile. Di fronte a tutto questo, il direttore di questo giornale, mi chiede perché, invece, il cristianesimo dà una importanza fuori del comune non solo alla visita ma addirittura alla liberazione dei carcerati. È una richiesta certamente provocatoria. E per parte mia penso che sia da raccogliere per non attutire la forza scandalosa del cristianesimo a tale riguardo. Le radici affondano già nella tradizione biblica del Messia che lo vedeva come colui che avrebbe aperto gli occhi ai ciechi e avrebbe fatto “uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che erano nelle tenebre” (Isaia 42, 7). Insomma, la liberazione dei carcerati tocca il contenuto stesso del messaggio biblico. La stessa tradizione del Giubileo significava l’azzeramento delle ingiustizie: ogni 50 anni si ricominciava tutti daccapo, anche i carcerati dovevano ripartire per una società nuova assieme a tutti. Ricordo ancora il professor Valdo Vinay, un grande pastore e professore valdese, il quale spiegava la salvezza come grazia con l’esempio di un inviato dello Stato che va in un braccio della morte e grida a tutti: “Siete tutti graziati!”. «Questo – spiegava – è il Vangelo, la Buona notizia di Dio agli uomini».

Di qui l’accentuazione cristiana per una attenzione misericordiosa verso i carcerati. Ne va della spiegazione stessa del Vangelo. L’annuncio profetico della liberazione dei prigionieri è una provocazione: e risuona come tale nelle parole di Vinay. La sua portata deve essere apprezzata in primo luogo nell’orizzonte globale della storia umana e della sua autentica destinazione. La prigionia, la costrizione della libertà, la separazione dalla comunità, non possono essere intese come un’anticipazione del giudizio universale, che spetta solo a Dio. Il delitto ferisce – anche a morte – la dignità e la pace dell’umana convivenza: questo non può essere ignorato. La limitazione della libertà e della condivisione che formano l’habitat della comunità ha un suo contenuto di sacrificio e di espiazione che ha un senso etico: e appunto per questo deve essere orientato al recupero e alla ricomposizione e alla riconciliazione con la comunità. Il problema sorge quando le sue modalità e i suoi effetti appaiono sproporzionati: o addirittura contraddittori. Le proporzioni di questo scarto, valutate in termini globali, presentano, ancora oggi, figure della costrizione e dell’avvilimento molto vicine a quelle per le quali i profeti biblici spendono parole di promessa e ammonimenti di giustizia, in nome di Dio: gli esiliati, i perseguitati, gli schiavi.

Non dimentichiamo che, nel mondo, migliaia e migliaia di esseri umani sono di fatto incarcerati e resi schiavi solo perché di diversa opinione politica, di diversa appartenenza religiosa, di diversa origine etnica, di deprivata condizione sociale. Tutte ragioni che, magari occultate, possono agire anche in contesti giuridici che ci appaiono più evoluti, offrendo margini a una dimenticanza, ad una indifferenza, ad una sopraffazione, che poco o nulla hanno a che fare con la colpa effettiva. La parola cristiana della “liberazione dei prigionieri”, che ripete quella dei profeti biblici, diventa un ammonimento contro ogni pretestuosa giustificazione della costrizione e contro ogni irresponsabile accanimento dell’umiliazione. La sua traduzione nel precetto di “visitare i carcerati” è il simbolo di questa volontà di vigilare eticamente sulla civiltà della sanzione, di partecipare attivamente ai processi di riabilitazione, di motivare affettivamente una cultura di riconciliazione. Gesù, identificandosi audacemente con i carcerati, ne ha fatto un argomento di “giudizio”, che ci coinvolge direttamente: «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Questo ammonimento fa parte della sua risposta a chi chiede che cosa si deve fare per essere degni della vita “eterna”. Ecco perché già l’apostolo Paolo scriveva: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere” (Ebrei, 13,3). È un eccesso? Credo proprio di sì. Ma senza l’audacia di questo “eccesso”, che nella sua interpretazione cristiana concreta e fattiva si pone come stimolo “profetico” per una cittadinanza umana degna di questo nome come possiamo evitare le contraddizioni di una società che si vuole giusta, ma non giustizialista, etica, ma non moralistica?

La Chiesa ha posto la visita ai carcerati nell’elenco delle opere “di misericordia corporale” (ossia effettive, concrete, visibili): dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. Tutte di grande attualità. Queste parole ci restituiscono il sogno di una società umana, dove regnano solidarietà e compassione, ben lontani da quell’iperegoismo e disinteresse crudele che troppo spesso segnano le nostre città. Nei miei studi storici sulle carceri mi sono imbattuto nel vescovo Sacanarolo, responsabile delle carceri pontificie nel secolo XVII, il quale affermava che non gli era mai capitato di vedere un giovane carcerato uscire dal carcere migliore di come vi era entrato. Ancora oggi forse è così. Sì, l’inutilità: ecco una questione che rinvia a una tematica di fondo. Nel nostro ordinamento, il carcere dovrebbe avere una funzione rieducativa. Dovrebbe servire da periodo in cui la persona detenuta abbia tempo per riflettere e possa reinserirsi in pieno nella società. Una chimera, una (pia) illusione in questa situazione e in questa epoca storica? Forse. Ma potremmo aggiungere anche questa provocazione. La libertà di autodeterminazione della quale – giustamente – ci vantiamo, ci appare forse automaticamente capace di sottrarre la comunità civile all’ingiustizia della diseguaglianza, della solitudine, della corruzione, mai profonde come in questo tempo saldamente amministrato? Insomma senza eccessi della ostinazione del bene, la qualità della vita non fa neppure piccoli passi.

Non parlo in queste righe dell’ordinamento giudiziario degli Stati, che chiede un approccio legato ai limiti e alle possibilità della mediazione politica del diritto. Mi fermo unicamente a sottolineare la tradizione cristiana che ininterrottamente predica la visita ai carcerati: una ispirazione che dà vita ad una fattiva rete di tutele e di pratiche rivolte ad una più umana condizione dei detenuti, come sanno le tante associazioni di volontari che intervengono per alleviare la solitudine, la privazione della libertà personale, l’isolamento e lo stigma di chi è carcerato. Se ci pensiamo, lo stesso nome che diamo agli edifici: “penitenziari”, suggerisce il tema della penitenza. Ed è giusto. Ma il Vangelo va oltre, oltre la pena e la penitenza. Ovviamente lo Stato ha suoi ordinamenti giudiziari, leggi e regole e la convivenza civile si basa sul rispetto di regole e sulla certezza della pena e su un ordinamento giudiziario non vendicativo ma ben regolato. È tutto giusto. Ma non possiamo non interrogarci sulla eventuale “inutilità del tempo detentivo”, come dice lo stesso Garante. In troppi casi la pena diventa doppia: alla privazione della libertà personale si somma l’essere dimenticati, gettati in un tempo vuoto che non consente di applicare quell’idea di reinserimento alla base della legislazione di uno Stato moderno e civile.