Non posso dire che Vladimir Putin sia per me uno strano e lontano parente, ma per le circostanze che adesso ricorderò e senza averlo mai incontrato di persona o per telefono, quest’uomo m’è familiare. Mi ha stupito, mi ha indignato, ho persino cercato di trovare le sue giustificazioni, ma molto prima di oggi ero già arrivato alle conclusioni che poi la cronaca e la storia stanno mostrando. La storia si intreccia con quella della commissione parlamentare sul dossier Mitrokhin, che è lunga e complessa e che sarebbe troppo noioso tentare di condensare. Ma vale la pena mettere a posto le date: il caso Mitrokhin nasce in Italia nel 1999, governo D’Alema, quando viene annunciata la pubblicazione anche in italiano di un libro scritto da un oscuro ex archivista del Kgb Vassili Mitrokhin insieme allo storico inglese Christopher Andrew.

In Italia e soltanto in Italia quel testo che era stato stampato il milioni di copie in tutto il mondo, provocò una tempesta mediatica: nel partito che era stato comunista scoppiò una sorda rissa tra comunisti che erano sempre stati filo russi come Armando Cossutta e quelli che in silenzio avevano invece tessuta rapporti sempre più stretti ogni Stati Uniti, col dipartimento di Stato fin dai tempi dei viaggi di Giorgio Napolitano quando andò a incontrare Henry Kissinger, Una miriade di voci, insinuazioni, ipotesi, depistaggi, smentite e accuse non provate, infestarono di colpo il panorama della politica italiana. Una tale rissa che lo stesso presidente del consiglio Massimo D’Alema prese in considerazione l’idea di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta su questo dossier. Io a quell’epoca ero vice direttore scrivente de il Giornale e mi ero occupato di questa faccenda del Mitrokhin molto di malavoglia. Ricordo benissimo, ero a New York nella confortevole casa della mia ex moglie al West Village quando Maurizio Belpietro, allora direttore del giornale mi telefono per chiedermi se avessi avuto voglia di occuparmene a tempo pieno.

All’inizio mi sembrava una storia vecchia come Arsenico e vecchi merletti le solite spie e le dubbie testimonianze. Poi, cominciai a capire che cosa fosse successo mentre ero in America e sentii subito puzza di bruciato. Non si trattava affatto di un’antica questione di vecchie spie che fotografano il nuovo sottomarino e neppure delle confidenze di un ambasciatore a una signora non disinteressata. Mettendo a fuoco la questione di quell’inchiesta che aveva tanto mosso le acque si vedevano non soltanto le due fazioni dell’ex partito comunista in lite fra loro ma comparivano personaggi legati alla Democrazia cristiana, al Partito socialista ed altri. Ciò che lo scandalo del libro di Mitrokhin illuminava somigliava a un regolamento di conti a dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, quando ancora non era chiaro che piega prendesse il futuro. Scrissi un gran numero di articoli, intervistai protagonisti, scoprii molte bugie e giorno dopo giorno, diventai sempre più esperto di una materia priva di fascino ma intrisa di sangue come quella dell’intelligence.

Fu allora che accadde l’imprevisto: il capo dell’opposizione di centro destra, Silvio Berlusconi, mi chiese se me la sentissi a proseguire la mia inchiesta sui banchi del Parlamento dove certamente si sarebbe varata una legge che istituisse la Commissione Mitrokhin. Dissi di sì, e quello fu l’inizio della fine della mia vita, perché non avevo minimamente calcolato ciò che sarebbe potuto succedere, che in parte successe e in parte no, come si sarebbero comportati i giornali, la politica, i poteri economici, le spie, e un’altra quantità di attore non minori nascosti nell’ombra. Candidato a Brescia fui eletto nel 2001 quando ancora la legge elettorale era il Mattarellum. La proposta di legge elaborata dalla coalizione di centrodestra impiegò più di un anno di ferocissimi scontri tra tutti i partiti rimpallando tra il Senato e la Camera dei deputati finché nel giugno del 2002 la legge fu approvata. Stranamente, il commissario più anziano risultò essere Giulio Andreotti il quale non aveva mai fatto parte in vita sua di alcuna commissione parlamentare e che fu dall’inizio alla fine un guerrigliero nel sabotare, frenare, deviare i buoni propositi della commissione istituita con una legge che prescriveva gli obiettivi da raggiungere.

E Putin? Putin era ancora un oggetto misterioso: arrivato al potere da poco, si sapeva che era sponsorizzato da Boris Yeltsin. Il giovane Vladimir appariva anche del tutto nuovo: non era un vecchio ubriacone come Yeltsin, non un consumato politico come Mikhail Gorbaciov e neppure una statua di legno mangiata dalle tarme come Leonid Breznev, ma un agile giovanotto che ispirava l’idea della modernità, abilissimo in tutti gli sport, capace di pilotare o guidare qualsiasi veicolo, vascello o aereo. In questo, se volete solo in questo, somigliava al Duce. Sembrava, il giovane Putin, di una eleganza europea con cravatte di eccellente fattura e sul volto un’espressione impenetrabile e astuta. Per quanto oggi possa sembrare incredibile, di lui mi ero fatto come tanti l’idea di un innovatore moderno appartenente al Grande Stagno intorno al quale gracidano le rane, come Platone definiva la civiltà del Mediterraneo che produceva filosofi e idee sulla città ideale.

L’incontro che Berlusconi aveva promosso a Pratica di Mare quando mise insieme le mani del presidente russo con quelle del presidente americano aveva prodotto un effetto emotivo di massa: tutto lo spaventoso intruglio di minacce e colpi di mano che aveva ispirato la guerra fredda, sembrò finito in un cassonetto. Del resto, c’era chi prevedeva la fine della Storia e Bill Clinton con Boris Yeltsin si erano già fatti vedere abbracciati, grassi e ubriachi in pubblico. Così, con aria deplorevolmente spensierata decisi in compagnia di Valerio Riva – famoso per il monumentale volume L’Oro di Mosca – pensai di scrivere una lunga e amichevole lettera a Vladimir Putin. E così, sulla mia terrazza, stendemmo Valerio e io un testo rispettosissimo anzi amichevole, pieno di speranza e di auguri, in cui chiedevamo al nuovo presidente russo di aiutare il Parlamento italiano. Ero in fondo non soltanto un senatore della Repubblica ma il presidente di una Commissione bicamerale, istituzionalmente avevo un rango piuttosto alto. La lettera, scritta in un russo perfetto e anzi letterario grazie a Valerio, auspicava una cordiale collaborazione fra le istituzioni italiane e russe con tutti i nastrini e i fiocchi d’ordinanza, La affidai alle vie diplomatiche e aspettai la risposta. Che non venne mai.

Non venne mai, mi fu detto qualche anno dopo, perché Vladimir Putin si era infuriato: “Davvero in Italia esiste una cosiddetta commissione d’inchiesta sul Kgb? E chi gli ha dato il permesso?” E qui veniamo ad un punto fondamentale: il Kgb. Noi distratti europei occidentali pensiamo che il Kgb fosse qualcosa di simile alla Cia americana, all’M16, il Servizio segreto di Sua Maestà e di James Bond, o al “Bureau” francese. Insomma, uno dei più importanti servizi segreti del mondo. Errore madornale: il Kgb è anche un servizio segreto, ma prima di tutto è l’istituzione che ha mantenuto unita la Russia averso i decenni anche con nomi precedenti che vanno dalla Ceka rivoluzionaria al Nkvd, ma che è sempre stato un ente militare che interviene nella vita di tutti e anche nello Stato a tutti i livelli. Era rimasto molto offeso dal fatto che un’istituzione italiana si fosse arrogata il diritto di indagare per di più sulla base di documenti provenienti da un transfuga passato agli inglesi. Il risultato fu visibile: i giornali russi cominciarono a pubblicare articoli sprezzanti e la mia sorpresa fu ancora maggiore quando vidi che quegli articoli venivano rimpallati e riecheggiati negli argomenti sulla stampa italiana. Trascuro molti passaggi già noti per arrivare al punto: tutti coloro che da Mosca cercarono di dare un loro contributo ad Alexander Litvinenko che dal Regno Unito raccoglievano informazioni, morivano.

Lo stesso “Sasha” fu ucciso col polonio e morì gridando e scrivendo di sapere che il veleno veniva da Putin. Il Regno Unito dopo qualche anno portò a termine l’inchiesta affidata a sir Robert Owen che mi convocò a dire quel che sapevo, sia negli uffici di Scotland Yard per due giorni e poi per via telematica al processo che si concluse con la sentenza che dichiarava Putin responsabile dell’omicidio Litvinenko, anche se non mise in relazione diretta quella morte con le tragiche vicende della Commissione Mitrokhin. Litvinenko prima di morire fornì le indicazioni che portarono all’arresto di un groppo di ucraini che portavano in macchina una grosso bibbia scavata per ospitare una granata di potenza micidiale che avrebbe dovuto essere usata da un ex ufficiale del Kgb residente a Napoli. Fu tutto messo a tacere con colpi di scena che vanno al di là di quel che io potevo concepire. Così cominciai a farmi un’idea di quello che fino a pochi anni prima mi era sembrato un gran bravo ragazzo, dal sorriso mesto ma obliquo.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.