"Il contatto diretto con questa realtà è molto importante"
“Colleghi magistrati entrare in carcere vi fa bene, l’ergastolo ostativo ci lega le mani”: intervista a Marco Puglia, giudice che scoprì la mattanza

«Bisogna vedere, onorevoli colleghi. Viverci in quelle celle. In certe carceri italiane bisogna starci per rendersene conto», diceva Piero Calamandrei. Oggi a vedere cosa accade in carcere ci vanno sempre meno politici, persino meno magistrati di sorveglianza. Eppure sarebbe così utile, così costituzionalmente giusto. «Sarebbe opportuno che la conoscenza del carcere non si arrestasse al magistrato di sorveglianza, che istituti di pena entrino anche altri operatori del diritto, pm, giudici avvocati, per avere una conoscenza immediata di cosa significhi lo spazio del carcere», afferma Marco Puglia, magistrato di sorveglianza a Santa Maria Capua Vetere.
Fu lui il primo ad entrare nel reparto dei pestaggi dopo quel pomeriggio del 6 aprile 2020. A sorpresa bussò alle porte della casa circondariale per verificare con i propri occhi quello che timidamente qualcuno gli aveva riferito. La storia delle violenze è ora al centro di un processo. Ed è solo la punta dell’iceberg in un sistema che è un mare di casi e norme che faticano a seguire una corrente realmente garantista.
Perché è importante che un magistrato conosca il carcere nella sua cruda realtà, che lo visiti, che si renda conto con i propri occhi del luogo a cui destina indagati, presunti innocenti?
«Il contatto diretto con questa realtà è molto importante. Il magistrato di sorveglianza entra nelle carceri come è normativamente previsto, dotato di un potere di ispezione da esercitare, entra per conoscere quello spazio e quell’ambiente e verificare che all’interno siano correttamente applicate le norme dell’ordinamento penitenziario e della Costituzione. Entrare in carcere significa entrare in contatto con la quotidianità di tanti soggetti: agenti penitenziari, direttori, operatori giuridico pedagogici e popolazione detentiva che vive l’ingresso del magistrato di sorveglianza con grande partecipazione. Diventa un momento di confronto e di colloquio. Il magistrato di Sorveglianza in quel momento è lo Stato che cammina all’interno dell’istituto penitenziario, è il potere giurisdizionale che entra in un luogo che ha una sua sacralità legata alla compressione di un bene fondamenta quale la libertà personale, ed è quindi giusto che tutti i magistrati di sorveglianza entrino all’interno degli istituti per segnare questo momento. Ma anche tutti gli altri operatori del diritto».
Mitterad in Francia abolì la pena di morte. Qui in Italia si fa fatica ad abolire l’ergastolo ostativo, un fine pena mai che equivale a una condanna fino alla morte.
«L’ergastolo ostativo è la fotografia incancellabile, scolpita nel tempo e imperturbabile dei fatti che hanno generato la condanna, un istituto insensibile ai percorsi trattamentali di rinnovamento che la persona condannata può fare. Sono tanti i soggetti che pur condannati per reati feroci, grazie al percorso fatto in carcere, hanno dimostrato di essere persone nuove, ma si sono viste chiuse le vere porte di un rinnovamento proprio dall’ergastolo ostativo che è condanna di un peso tale che svilisce quello che è l’obiettivo costituzionale. Perché l’ergastolo ostativo è legato a una valutazione lontana nel tempo che non richiede una riattualizzazione della valutazione di pericolosità. Tutto ciò che è ostativo nell’ordinamento penitenziario mette a dura prova la magistratura di sorveglianza che ha le mani legate, salvo adire la Corte costituzionale, anche davanti a percorsi che anelano un passo avanti, un’apertura trattamentale».
Si parlava di persone nuove. Diventare persone nuove si può, meritare una seconda opportunità appartiene a uno Stato di diritto, a una giustizia giusta. Va riconosciuta, no?
«Certo. E di persone nuove ne ho conosciute tante. Una mi ha colpito particolarmente. C’era un condannato per traffico internazionale di droga, aveva una condanna importante per fatti che lo vedevano coinvolto sin da quando era adolescente. Questa persona era detenuta a Carinola e quando si prospettò la possibilità di una misura alternativa, con la cooperativa “Al di là dei sogni” di Sessa Aurunca, decisi di sperimentare. La misura alternativa prevedeva che quel ragazzo lavorasse, regolarmente retribuito, coltivando la terra nei possedimenti di questa coop che fa parte del circuito di Libera. Questo detenuto iniziò così un percorso di totale rinnovamento per cui oggi con la famiglia si è trasferito a Cellole e lavora con la coop, lavora anche la moglie, e lui con Libera racconta la sua storia, dalla scelta iniziale di essere un ragazzino di Scampia che guadagnava con la droga alla decisione di ricalcolare la propria vita dedicandosi alla legalità e al lavoro. Questa storia mi ha colpito perché io e questo detenuto siamo coetanei: io sono di Secondigliano e lui di Scampia, siamo cresciuti a distanza di pochi chilometri, l’uno inconsapevole dell’altro, scegliendo percorsi diametralmente opposti. Mentre io studiavo giurisprudenza lui diventata elemento di spicco del clan, mentre io mi laureavo lui entrava in carcere, poi grazie ai percorsi magici della legalità ci siamo incontrati: io ho dato un’alternativa a lui e lui ha dato a me il coraggio di credere negli altri come magistrato di sorveglianza e di credere che non sempre tutto sia perduto».
Ci vuole il coraggio delle scelte, il coraggio del garantismo.
«Concedere una possibilità a chi è in un momento del percorso adeguato significa dare a quella persona l’opportunità di uscire dal circuito criminale, ma significa anche far del bene alla società che riaccoglie una persona rinnovata. Solo la criminalità potrebbe giovarsi della volontà di chi è stato in carcere di tornare a commettere reati, far sì che chi è in esecuzione di pena torni a noi nel migliore dei modi è un bene per tutti».
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