Ritirato e riammesso. Astrazeneca è assolto e la campagna vaccinale riprende. Ma andiamo con ordine.

Dopo la somministrazione a soggetti fragili e vulnerabili, per costituzione, per storia sanitaria o per estrema esposizione professionale, come i medici e gli infermieri, era arrivato il turno della prima vasta categoria di lavoratori di seconda fascia, che potremmo definire arancioni, secondo il codice di colori che classifica il rischio per le regioni. Il turno di vaccinazione del corpo docente e dell’altro personale scolastico.

La fattibilità di una efficace vaccinazione generalizzata è subordinata a due condizioni: disponibilità di dosi e organizzazione della macchina vaccinale. Per quanto riguarda il primo aspetto, dipende dalla capacità di far rispettare gli accordi stipulati con le aziende e dall’arrivo sul mercato farmaceutico di nuovi vaccini. Per quanto riguarda il secondo, vi racconto come è andata a me.

Con l’app predisposta per i docenti universitari, mi ero prenotato per ricevere la prima dose presso la struttura allestita nella Nuvola di Fuksas, il centro Congressi all’Eur di Roma, solitamente in Italia. Stavolta invece era in Svizzera, anzi di più, in Prussia. Le convocazioni erano scaglionate, ogni dieci minuti. Sono arrivato alle 8:15, mentre l’orario fissato erano le 8:10. Avvicinandomi all’ingresso, ho rallentato il passo, vedendo quelle che, da lontano, sembravano lunghe file. Era certo che avrei passato la mattinata in attesa, inutile precipitarsi. Mi sono messo dietro all’ultimo di una delle code. Un ragazzo addetto al controllo mi si è accostato e mi ha chiesto per quale ora fossi prenotato. Le 8:10. Con una scrollata di capo ha manifestato il suo cortese dissenso, dicendomi che quella era la fila delle 8:20. Quella delle 8:10 era l’altra, laggiù, e mi ha indicato alcune persone in fondo, prossime all’entrata. “Si affretti, è quasi esaurita!”.

Una volta dentro, ho sbrigato le formalità di accettazione in un lampo. Mi hanno attribuito un numero e invitato ad accomodarmi nella prima sala, quella di aspetto, in attesa di essere chiamato. Le sedie erano quasi tutte libere. La gente entrata prima di me era già passata nella sala accanto e anche io, due minuti dopo, quando accanto al mio numero è comparso sul tabellone il codice del tavolo al quale presentarmi. Nella seconda sala, molte decine di tavolini, forse 50. Ad ogni tavolino, un infermiere. Mi siedo al tavolo assegnato e, con l’aiuto dell’infermiere, faccio una rapida anamnesi e compilo il modulo che mi era stato consegnato. Tutto pronto, passo nella terza sala. Anche qui seggiole debitamente distanziante. Mi siedo in una libera. Due minuti di attesa e, dall’infermiere coordinatore, arriva l’ordine a tutti di scoprire la spalla. Nel frattempo, un altro infermiere con un carrello passa davanti alle file di seggiole e fa tappa davanti a ciascuno.

Mano di velluto, l’ago penetra e viene estratto lasciando la sensazione di un pizzicotto. Fatto tutto. Mi alzo e mi indicano la quarta sala, anch’essa di aspetto. È l’ultima tappa. Occorre restare in osservazione per un quarto d’ora, nel caso si verificassero reazioni avverse. Una chiacchera col vicino, una sbirciata alle mail sul cellulare e sul tabellone compare di nuovo il mio numero, associato al numero di uno sportello in prossimità dell’uscita, dove mi viene rilasciato il certificato di (prima) vaccinazione. Tra quando mi sono detto: «Lo sapevo, se mi va bene passo in fila solo la mattinata», e quando mi sono ritrovato nello stesso punto in cui avevo concepito il funesto presagio, erano trascorsi 35 minuti. Morale: si può fare. Non occorrono reparti ospedalieri o ambulatori, basta un qualunque spazio ampio e igienizzato. A me è toccato un centro congressi, ma andrebbe ugualmente bene una palestra, un ufficio pubblico, una chiesa. O magari lo studio del medico proprio di base, con molta minore capacità di vaccinazione, ma con una distribuzione sul territorio enormemente più capillare. Quindi il problema non è come eseguire la vaccinazione ma, al più, assicurare l’approvvigionamento delle dosi. E un ultimo fattore, più subdolo: la diffidenza, alimentata da comunicazioni a volte fuorvianti.

È famoso il paradosso della correlazione tra la diffusione dei personal computer e la diffusione dell’Aids. Negli anni 80 e 90 le due curve erano quasi sovrapponibili: all’aumento del numero di computer corrispondeva perfettamente l’aumento di casi di Aids. Proprio come le curve dell’aumento della concentrazione di gas serra in atmosfera e dell’aumento della temperatura media del pianeta. Cosa vogliamo concludere? Delle due, l’una: o i personal computer provocavano effettivamente l’Aids, così come l’aumento di gas serra provoca l’aumento di temperatura; oppure i computer non c’entrano niente con l’Aids, né i gas serra col riscaldamento globale. La logica è un terreno sdrucciolevole, soprattutto la logica matematica.

Che i computer non provochino l’Aids sembra abbastanza evidente, mentre invece che l’emissione di gas serra induca il surriscaldamento del clima è dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio. La soluzione del paradosso è che due fenomeni possono avere la stessa progressione, o perché sono effettivamente legati uno all’altro, o perché -pur essendo indipendenti tra loro- sono entrambi legati a un terzo fenomeno, che li influenza nello stesso modo. Facciamo un caso. Mia zia faceva i tortelli. Nel ripieno, oltre la zucca, metteva anche dell’amaretto sbriciolato. Una volta, al ristorante Virgilio, ho ordinato dei tortelli di zucca e nella farcitura c’erano anche amaretti tritati! Che diamine, c’era mia zia in cucina e io non lo sapevo? O il cuoco conosceva mia zia? Oppure… oppure per caso mia zia aveva sposato un mantovano (e la suocera le aveva insegnato la ricetta) e quel ristorante si chiamava Virgilio per un motivo preciso? Eh già, è come nel caso dei computer e dell’Aids: mia zia, buon’anima, non aveva mai avuto a che fare col cuoco del ristorante Virgilio, ma sia lei che lui seguivano la ricetta tipica mantovana. Il computer e l’Aids non dipendono uno dall’altro, ma dipendono entrambi da una variabile comune, il tempo.

Negli anni 80 e 90, man mano che passava il tempo, aumentava sia la produzione dei computer, che il contagio dell’Hiv e la progressione era pressappoco uguale nei due casi. In Italia ci sono oltre 100mila casi di ictus all’anno e circa altrettanti di infarto del miocardio. Man mano che aumentano le vaccinazioni, tra questi 200mila, un numero sempre crescente di soggetti, subirà un ictus o un infarto dopo la vaccinazione. Non a seguito della vaccinazione, ma in seguito alla vaccinazione. L’equazione post hoc, ergo propter hoc, non ha fondamento logico. Capire se ci siano delle morti attribuibili alla vaccinazione, su pura base statistica, tramite il confronto con i dati degli anni precedenti, è complicato. L’anno precedente potrebbero essersi verificati eventi che hanno reso più o meno probabili decessi dello stesso tipo. Un metodo più spedito sarebbe stato il confronto tra i casi di decesso prima e dopo la vaccinazione: le morti sospette si sono verificate entro due settimane dalla somministrazione del vaccino?

Siccome ci si deve prenotare per la vaccinazione (e quindi si sa chi sta per vaccinarsi), si sarebbe potuto contare quante morti si siano verificate entro due settimane prima della vaccinazione. Se il numero delle morti nelle due settimane prima del vaccino e nelle due settimane successive al vaccino fosse risultato circa lo stesso, avrebbe significato che il vaccino era ininfluente e quindi innocente. Per carità, essendosi verificati casi sospetti è stato giusto sospendere le vaccinazioni, perché il principio di precauzione deve essere sempre rispettato. Ma poi, aspettiamo di stabilire che ci sia stato effettivamente un nesso causale prima di correre a strillare contro i vaccini, come sono corso io in cucina… sperando di poter abbracciare mia zia…