La vicenda dell’orribile pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ha ricevuto molti commenti e molta indignazione. Il ministro Cartabia ha parlato di un «tradimento della Costituzione», parole che non sono solo il segno di uno sbigottimento e di un profondo rammarico perché provengono dall’ex presidente della Consulta che sa bene che la Costituzione contempla esattamente il tradimento come il più grave dei crimini che si possano imputare a un’istituzione dello Stato, tant’è che riguarda addirittura il presidente della Repubblica (articolo 90). I giudizi sono stati in gran parte netti, ma la comprensione di quanto accaduto è cosa complessa e che pretenderebbe un certo coefficiente di onestà.

Il massiccio e sistematico ricorso alla violenza, il numero enorme di detenuti e di personale della polizia penitenziaria che è rimasto coinvolto nella “Straf Spedition”, nella spedizione punitiva accertata dalla Procura di quella città, impongono un’analisi sincera della condizione carceraria nel nostro paese e non solo. Le parole più autorevoli in questa direzione sono quelle che ha reso in un’ottima intervista all’Avvenire Sebastiano Ardita che, per anni, ha ricoperto un ruolo di grande rilievo nel Dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia. Ha detto il dottor Ardita che le ragioni di tutta quella violenza «vanno cercate nel microclima interno alle carceri, caratterizzato da una situazione di scontro tra detenuti e personale penitenziario; una situazione anomala, che non dovrebbe mai determinarsi, forse frutto di un modello organizzativo da rivedere e rispetto alla quale andrebbe fatta un’analisi serena, per correggerla senza ulteriori traumi». Sono parole che dovrebbero porsi al centro di una riflessione seria e risolutiva sul pianeta carcerario in Italia.

Le raffiche di giustizialismo e di manettarismo che ammorbano la discussione sul punto hanno, tra molti torti, anche quello di ignorare volutamente che il sovraffollamento carcerario che auspicano e alimentano con leggi liberticide e richieste di punizioni esemplari non hanno fatto altro che scaricare definitivamente sulla polizia penitenziaria un compito immane. La gestione dei detenuti è un lavoro complesso, difficile, anche pericoloso in alcuni casi. All’interno degli istituti si creano equilibri precari e instabili in cui è sempre complicato mettere insieme il controllo di un numero esorbitante di detenuti, le loro difficili condizioni esistenziali, la compressione di ogni intimità e riservatezza con l’avvio di percorsi che ne agevolino il recupero. Sarebbe complesso spiegarlo ora, ma persino la questione – affrontata dalla Corte costituzionale di recente – dell’ergastolo ostativo a ogni beneficio senza la collaborazione di giustizia rientra in un visione della detenzione carceraria irrimediabilmente distante dal modello costituzionale e terribilmente pericolosa alla luce di quanto accaduto nello stabilimento di Santa Maria Capua Vetere.

Se il carcere, nella sua massima severità punitiva, viene brutalmente percepito come il luogo in cui occorre piegare la volontà dei detenuti per fletterla verso il pentimento e la delazione, è chiaro che il modello di comportamento che viene irradiato verso la polizia penitenziaria è quello securitario. Sospinte da 30 anni di emergenza, le celle non sono mai diventate veramente il luogo dell’espiazione e della rieducazione, ma hanno teso piuttosto a trasformarsi in un campo di aspra battaglia in cui si confrontano la volontà degli asseriti irriducibili e quella dei carcerieri che percepiscono la pacificazione e il controllo come gli strumenti indispensabili per conseguire la mission politica che gli è stata affidata o di cui, comunque, percepiscono l’importanza. Troppe volte il trasferimento di detenuti in carceri a elevata sicurezza, in reparti duri, finanche in istituti posti in zone impervie e remote è stato richiesto all’autorità penitenziaria dagli inquirenti come il mezzo per piegare la volontà dei renitenti, per indurre alla collaborazione soggetti ritenuti portatori di verità rilevanti da confessare.

In questo scenario le pregresse responsabilità ministeriali non sono marginali poiché attengono, anche, alla gestione dei detenuti nelle varie carceri e alla somministrazione del regime ex articolo 41-bis che ormai viene attivato praticamente su mero input delle procure della Repubblica desiderose, non solo e non tanto di contenere la pericolosità del ristretto, ma di agire sui soggetti marginali, sui ritenuti fragili che possono cedere alla pressione carceraria. Ecco, per seguire le giuste osservazioni del dottor Ardita, si tratta in primo luogo di restituire al ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria la sua piena autonomia rispetto alla magistratura inquirente e alle sue pur comprensibili istanze che non possono, però, tradursi in un complessivo appesantimento delle condizioni carcerarie in cui migliaia di detenuti percepiscono che per sfuggire alla durezza della prigionia l’unica via d’uscita è il pentimento.

Troppe iniziative, tuttavia, si sono realizzate negli anni in direzione opposta, con la creazione persino di cellule investigative della polizia penitenziaria che monitorano i detenuti, ne invogliano le collaborazioni, ne percepiscono le confidenze da barattare con qualche alleggerimento della restrizione. In questo modo il carcere è diventata un’estensione del campo di battaglia che è situato fuori dalla mura in cui si fronteggiano inquirenti e mascalzoni, laddove avrebbe dovuto essere il luogo della tregua e dell’habeas corpus. Un posto in cui ciascuno – con la tranquillità possibile – ha modo di riflettere sugli errori commessi e su come emendare la propria esistenza. Se i detenuti sono percepiti come prede da accaparrarsi e da piegare ai desiderata degli inquirenti e se la polizia penitenziaria viene consegnata, anche solo in parte, a questo ingiusto compito, ecco che la battaglia per la supremazia e per il potere diviene durissima e gli abusi si moltiplicano, spesso nel più assoluto silenzio, tra troppe violenze e troppi suicidi.