Una delle prime conseguenze di un conflitto è lo smarrimento degli spazi. Si parla di obiettivi, di punti da colpire con missili che, ci spiegano, sono sempre più precisi, millimetrici. Si fanno prove per coprire grandi distanze, migliorare la precisione e, in questo modo, aumentare la minaccia e il conseguente senso di allerta dei popoli vicini (e meno vicini). Ma non sono più spazi, grandi spazi. Anzi, talvolta gli obiettivi sono nel cuore di un punto della terra: come le acciaierie di Azovstal.

Ci chiediamo – spesso con angoscia – come potrebbe essere lo sviluppo possibile di un conflitto come quello iniziato il 24 febbraio 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina, come potrà essere il “dopo”? Come potrà essere la pace, che cosa davvero la aiuterà e quanto tempo ci vorrà per costruirla solida, credibile? Come dovrà essere la giustizia, quale volto dovrà avere? C’è chi propone una nuova “Norimberga” per Putin, i suoi generali, i suoi collaboratori. Ci sarebbe già pronto per il Tribunale Internazionale un dossier con prove evidenti di crimini di guerra perpetrati con sistematica, consapevole, ferocia. Un pensiero, più frequente da qualche giorno, insiste sulla difficoltà, la sostanziale impossibilità, di pensare davvero a scenari futuri in presenza di una guerra che si delinea sempre più come una guerra di tempi lunghi, di scenari sempre più complessi e imprevedibili. Così, insieme agli spazi, si smarriscono e sfumano anche i tempi.

La domanda per una giustizia “altra”, che ripara ferite, relazioni perdute, ha trovato posto anche tra le colonne di questo giornale. È una giustizia diversa da quella dei tribunali speciali, diversa dalla sommarietà che, dividendo troppo facilmente in buoni e cattivi, introduce semplificazioni superficiali e miopi e impedisce di capire. Questa domanda deve procedere con prudenza. Non per paura o perché i contorni dei propri riferimenti siano troppo timorosi o deboli ma perché l’ascolto profondo delle storie, il riconoscimento del dolore attraversato, la restituzione della dignità che viene proprio da quell’ascolto, ha bisogno di tempi lunghi. E di grandi spazi.

Funziona proprio all’opposto degli obiettivi e dell’occupazione di punti strategici. Sarà certamente necessario tornare sui percorsi di restorative justice e sulle loro condizioni di possibilità, sui passi possibili – già da ora – in questa direzione. “Most of all – scrive John Braithwaite (criminologo australiano, animatore di percorsi di restorative justice, studioso e fondatore della School of Regulation and Global Governance) – restorative justice must be a plural movement that relishes rainbows of interpretation on how to make peace, how to heal, informed by advocates in Ukraine, in Russia, from every corner of the planet, from every political persuasion” (Putin’s war: restorative reflection, in “The International Journal of Restorative Justice”). L’ “arcobaleno di interpretazioni” di cui parla Braithwaite, il contributo di riflessione che può venire “da ogni angolo del pianeta”, ha proprio bisogno di grandi spazi.

Nel suo Cittadella, opera incompiuta, tra saggio e romanzo, pubblicata nel 1948, quattro anni dopo la sua morte, Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del noto e amatissimo Il Piccolo Principe, immagina il Re di un regno non precisato che, dal suo trono, ci rende partecipi di pensieri, considerazioni, speranze e oscurità: immagini, riflessioni, aforismi, domande in dialogo incessante con Dio, con se stesso, con il suo popolo. A tratti ritroviamo i grandi spazi già incontrati nel suo “Pilota di guerra”, un mondo dolente visto dall’alto, lasciando risuonare le profondità del cuore, l’ascolto intimo dell’umanità. Ritroviamo, cioè, i grandi spazi e i caldi orizzonti di cui un itinerario di restorative justice ha bisogno: “Se vuoi costruire un’imbarcazione – scrive Saint-Exupéry –, non preoccuparti tanto di adunare uomini per raccogliere legname, preparare attrezzi, affidare incarichi e distribuire lavoro; vedi piuttosto di risvegliare in loro la nostalgia del mare e della sua sconfinata grandezza”.

Appare prioritario, quindi, risvegliare nelle persone il desiderio di vita piena, del mare sconfinato, non misurato né schiacciato da logiche di possesso e di conquista, non guardato da dietro gli obiettivi dei binocoli e dei droni. Non avvilito dalle strettezze della logica del nemico. Se è vivo tra noi il desiderio di mare aperto, di spazi grandi, la disponibilità per ascolti profondi, se abbiamo, cioè, un grande desiderio di mare, di spazi aperti, allora raccogliamo pure la legna, raduniamo la gente e costruiamo la nave…