Processare il nemico ha due versanti: uno legittimo e uno illegittimo. Il primo riguarda il diritto penale di guerra e le fattispecie che prevedono violazioni di doveri militari o di diritti fondamentali dei belligeranti e delle popolazioni civili. Il secondo riguarda invece l’uso del diritto come arma contro alcuni autori di reato, presunti nemici della società o dello Stato, per escluderli, annientarli, privandoli di garanzie penali o giurisdizionali avvertite come un ostacolo alla neutralizzazione di situazioni o persone pericolose. È quest’ultimo il fenomeno al quale ci si riferisce, nel dibattito contemporaneo, quando si parla di diritto penale del nemico.

C’è una vicenda del Novecento italiano troppo istruttiva su che cosa è l’uso della legge contro il nemico, che non coincide con il normale diritto penale di guerra, ma con una sua patologica espressione. Dato che i libri di storia, e quelli di diritto, non raccontano di frequente questa pagina oscura legata ai processi al fascismo e a supplizi “retroattivi”, è forse utile che nel clima bellico che devasta oggi le menti si faccia un esercizio di memoria. Caduto il regime fascista il 25 luglio del 1943, il primo governo Badoglio dura 45 giorni, fino all’8 settembre. Nasce quindi un periodo di guerra civile, oltre che di resistenza e di liberazione, all’interno di un Paese teatro del conflitto mondiale. Il 23 settembre 1943, all’Ambasciata tedesca di Roma, si costituisce un “nuovo” Stato fascista repubblicano che il 18 novembre prende il nome di Repubblica sociale italiana. La Repubblica di Salò, nei Seicento giorni della sua esistenza (fino al 25 aprile 1945) si estende tanto quanto il territorio dell’occupazione tedesca, vale a dire da tutto il Nord dell’Italia fino a Lazio e Abruzzo e parte di Puglia e Campania. Il suo “centro”, però, è l’Italia settentrionale.

Nella restante parte dell’Italia meridionale è presente inizialmente il “Governo del Sud”, con sede a Brindisi e poi a Salerno, avendo il Re abbandonato Roma. Solo dal giugno 1944, liberata Roma dai tedeschi ad opera delle forze anglo-americane, il Governo italiano rientra nella capitale, e per effetto del Regio Decreto 5 giugno 1944, n. 140 la rappresentanza dello Stato viene trasferita alla luogotenenza di Umberto di Savoia. Tra i provvedimenti più significativi del Governo italiano, comprensivi di disposizioni amministrative, civili, penali dirette ad effettuare la c.d. epurazione o defascistizzazione dello Stato, vanno qui segnalate le norme penali nuove, dirette a colpire i delitti “fascisti” commessi per la presa del potere e per il suo mantenimento, e dunque prima dell’entrata in vigore delle nuove incriminazioni: nuovi delitti di creazione del fascismo, nonché di atti rilevanti di appoggio ad esso, per i quali era prevista la pena di morte; e i meno gravi delitti di collaborazionismo col tedesco invasore commessi sia da militari e sia da civili.

Accanto a queste incriminazioni si previdero norme processuali che introducevano tribunali penali straordinari, tra i quali un organo di formazione anche politica come l’Alta Corte di Giustizia, e le Corti d’Assise straordinarie, tutti organi temporanei ed eccezionali costituiti ad hoc per celebrare i processi penali contro i delitti del regime fascista. Si trattò di drammatiche torsioni del diritto e del processo penale. Già un R.D. 26 maggio 1944, n. 134 introdusse la “Punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo” con le stesse pene retroattive poi previste dal decreto luogotenenziale del luglio 1944 (d. lg. Lgt. 27 luglio 1944, n. 159). Sul versante della Repubblica sociale italiana una analoga criminalizzazione del passato venne introdotta in una sorta di “regolamento dei conti” tra fascisti del ventennio ed esponenti del secondo fascismo. Il nuovo governo repubblicano, al primo punto del suo programma, annoverava la volontà di definire penalmente la colpa storica di gerarchi del partito, generali e ministri, corresponsabili della caduta del regime fascista.

Venne istituito un Tribunale speciale straordinario che aveva infatti il compito di “giudicare i fascisti che nella seduta del Gran Consiglio del giorno 25 luglio 1943, tradirono l’idea rivoluzionaria alla quale si erano votati fino al sacrificio del sangue e col voto del Gran Consiglio offrirono al re il pretesto per il colpo di Stato” (art. 4 d. lgs. 11 novembre 1943). La fattispecie nuova, di cui dovevano rispondere, accanto a due altri delitti connessi del codice penale e di quello militare di guerra (art. 241 c.p.: attentato contro l’unità e l’integrità dello Stato e art. 51 c.p.m.g.: aiuto al nemico), era scritta nell’art. 1, lett. a) del medesimo decreto, cioè il “tradimento del giuramento di fedeltà all’idea”. Prevedeva il successivo art. 7: “Per i reati di cui all’art. 1, lett. a) è comminata la pena di morte”. Si celebrò quindi il Processo di Verona, dall’8 al 10 gennaio 1944, contro 19 imputati tra i componenti della seduta del Gran Consiglio, tra i quali Galeazzo Ciano. Di questi 18 furono condannati alla pena capitale, la maggior parte in contumacia, pena subito eseguita l’11 gennaio 1944.

Sul piano dell’attuazione delle leggi contro il fascismo, peraltro, nel novembre 1945 risultano 21.454 processi pendenti, e i condannati, alla fine, saranno 5.928, di cui 334 latitanti. Le condanne alla pena capitale furono, alla fine, 259, di cui 91 eseguite. Per gli altri 168 intervennero indulti, condoni, provvedimenti di grazia. Dei 5594 condannati non latitanti, 5328 furono scarcerati anticipatamente per amnistia, indulto, grazia o liberazione condizionale. Alla data del gennaio 1953 c’erano ancora 266 detenuti (R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il Fascismo, Baldini&Castoldi, 1999, 451 s.). In effetti queste drammatiche vicende di storia patria approdarono l’indomani del referendum a favore della Repubblica (2 giugno 1946) nel provvedimento di amnistia e indulto per i delitti di collaborazionismo, promulgato con il d.p. 22 giugno 1946, n. 4, la c.d. amnistia Togliatti, dal nome di Palmiro Togliatti, all’epoca Ministro di Grazia e Giustizia (su queste vicende giudiziarie v. G. Vassalli/G. Sabatini, Il collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Ed. La Giustizia penale, 1947, e poi M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Mondadori, 2006; P. Caroli, Il potere di non punire, Esi, 2020).

Si noti che la fattispecie incriminatrice nuova e principale del processo di Verona, cioè il delitto di “tradimento del giuramento all’idea”, riguardava un singolo fatto storico irripetibile, una norma diretta solo al passato e non al futuro. La caratteristica di questa incriminazione – applicabile anche ad altri tradimenti dell’idea, ma tutti riferiti al passato, da parte dei Tribunali provinciali straordinari – era di riguardare fondamentalmente fatti storici irripetibili (“hanno tradito”); ma lo stesso deve dirsi dei delitti di creazione del fascismo e di atti rilevanti di appoggio ad esso introdotti dal Governo del Sud, che non disponevano per l’avvenire, ma solo per il passato. Non erano vere “leggi”, perché la legge dispone per l’avvenire, e proprio questo tratto le escludeva dal novero del “diritto penale”, cioè del penale come “diritto”, in quanto si legittimava una condanna a morte, quale mero atto punitivo del nemico, in assenza di un diritto precostituito al fatto e mancando altresì un diritto riferibile a condotte … susseguenti all’entrata in vigore della norma.

L’indomani dell’approvazione delle sanzioni contro il fascismo vi furono alcune reazioni non solo da parte di giuristi. La Civiltà cattolica, ma anche Benedetto Croce, si opposero alle leggi retroattive. Fra i giuristi che si confrontarono pubblicamente sul tema meritano di essere ricordate le posizioni contrapposte di Arturo Carlo Jemolo e di Piero Calamandrei. Il breve dibattito avvenne sulle pagine della rivista Il Ponte. Jemolo sosteneva l’unica tesi sottoscrivibile da un penalista e, diremmo oggi, corretta sul piano costituzionale (A.C. Jemolo, Le sanzioni contro il fascismo e la legalità, in Il Ponte, 1945, 277 ss.). Ben consapevole dell’immenso dolore prodotto dai morti sotto il pugnale o il manganello, in guerre ingloriose e inutili, in esilio, in galere riempite da sentenze politiche ingiuste del Tribunale per la difesa dello Stato, consapevole del sentimento di vendetta diffuso, Jemolo ricordava che bisogna sapere «resistere all’uomo della strada», che «non si compensa il dolore con il dolore» e che la legge penale non può essere retroattiva. All’amico Calamandrei, quindi, rammentava che non era certo “rivoluzionaria” quella giustizia retroattiva assai poco cieca, ma orientata a scegliere pochi per colpirli con pene esemplari, e ad attuare un’epurazione, sul piano amministrativo, sorretta dal rancore del «collega ieri superato» o dalla «cupidigia dell’aspirante al posto».

Nel pubblicare questo accorato intervento il direttore della rivista, Piero Calamandrei, replicava in una “postilla” in calce (Il Ponte, 1945, 285 s.). Le leggi contro il fascismo, diceva Calamandrei, sono giustificabili non solo sul piano politico, ma propriamente giuridico. Infatti, il principio nullum crimen sine previa lege doveva e poteva essere bilanciato con un altro principio «ancor più essenziale», perché condizione ancor più indispensabile d’ogni civile convivenza: «quello che vieta ai singoli di farsi giustizia da sé. E quando la tensione politica è tale che senza l’intervento dello stato le vendette sociali dilagherebbero nella guerra civile, si può pensare che anche il dogma della irretroattività della legge debba per forza passare in seconda linea». Meglio la retroattività della guerra civile, diceva Calamandrei in sintesi. Inoltre, quando a un ordinamento ne subentra un altro, le garanzie di irretroattività non varrebbero più, trovando applicazione il nuovo e diverso assetto legislativo. Oggi questa giustificazione non potrebbe essere accettata, tanto più osservando quali norme divennero retroattive, per quanto nell’arco di un biennio si sia passati dalla pena di morte per reati inesistenti al tempo dei fatti e anche in seguito, alle esecuzioni illegali extragiudiziarie, all’indulgenza generalizzata.

Quando si pensa di usare il diritto criminale contro nemici in guerra col proprio Stato, o con la propria parte, e durante le ostilità, per punirli delle violazioni dei diritti umani, o delle popolazioni civili, o anche in organi costruiti ad hoc con quel fine, mentre parlano le armi, ogni giudicante sa che è in gioco la sua terzietà e l’uso strumentale della legge per scopi politici. È un rischio troppo forte. La giustizia penale, anche se politica nella legislazione, resta sempre individuale e non en masse nel giudizio. Per questo non deve ricostruire “la” storia e “la” memoria, ma solo accertare singoli fatti del passato dentro a previsioni legali costruite per il futuro. E anche qui i limiti di prova e di garanzia delle decisioni giudiziali rivelano tratti incompatibili con la pura conoscenza storica, che non tollera vincoli di giudicato. Quando poi i Tribunali usano le incriminazioni e i processi come armi di massa, anche il valore di giustizia, oltre che di conoscenza sempre parziale, delle decisioni ne risulta compromesso e confuso nel diritto penale del nemico, sia questo un terrorista, un mafioso o, sic, un russo.

Cfr. sul tema M. Donini, “La gestione penale del passaggio dal fascismo alla democrazia in Italia. Appunti sulla memoria storica e l’elaborazione del passato ‘mediante il diritto penale’”, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 2009, 183 ss.; M. Donini, F. Diamanti, “Il processo di Verona”, ibidem, 2020, 465 ss.