A differenza di quel che si potrebbe credere in base alla visione dei processi di Norimberga offerta soprattutto dal cinema, la strada che portò a quei processi e in particolare al primo, che vide alla sbarra i principali gerarchi superstiti del Terzo Reich dal 20 novembre 1945 al primo ottobre 1946, fu lunga, contrastata, segnata dal rapporto di forze e dalle diverse esigenze dei Paesi in guerra contro l’Asse. E fu molto più decisivo di quanto non sia apparso in seguito il ruolo dell’Unione sovietica.
A parlare per la prima volta di una punizione legale per i nazisti e i loro alleati erano stati nel gennaio 1942 i rappresentanti di nove Paesi invasi dalle forze dell’Asse, riuniti a Londra. L’idea di un tribunale internazionale non aveva convinto nemmeno un po’ Usa e Uk, anche perché l’esperienza si era dimostrata fallimentare e controproducente dopo la prima guerra mondiale.

In giugno, a Washington, il premier inglese Churchill e il presidente Roosevelt avevano concordato sull’opportunità di dar vita a una commissione d’inchiesta sui crimini di guerra, priva però di poteri sanzionatori. Nella visione dei due leader si trattava di una commissione con scopi essenzialmente propagandistici. L’ipotesi di allestire un vero processo era ancora del tutto esclusa. La situazione nell’Unione sovietica era opposta. Stalin e il suo ministro degli Esteri Molotov volevano assolutamente che i leader della Germania nazista fossero portati alla sbarra, anche e forse soprattutto perché, per quanto la situazione dell’Urss fosse ancora difficilissima e la guerra tutt’altro che vinta, già miravano a riparazioni tali da permettere la ricostruzione di un Paese devastato e distrutto dalla “guerra assoluta” di Hitler. Quello che avevano in mente non era un processo che implicasse equilibrio tra accusa e difesa, esibizione di prove o dubbi sul verdetto. Il modello erano i grandi processi staliniani del 1937 e infatti Stalin incaricò proprio Andrej Vyshinsky, il grande inquisitore di quei processi, di preparare quelli del dopoguerra.

Vyshinsky, a sua volta, coinvolse Aron Trainin, il giurista sovietico che più di ogni altro aveva dato forma legale ai processi di Mosca. Fu Trainin, nei tre anni successivi, a definire l’impianto legale che sarebbe poi stato adoperato a Norimberga, smantellando la giustificazione adoperata più spesso, quella di aver “obbedito agli ordini” e soprattutto aggiungendo all’accusa di “crimini contro l’umanità” quella sino a quel momento inesistente di “crimini contro la pace”. Il fatto stesso di aver deciso di muovere guerra con scopi di razzia o genocidio diventava così delitto in sé. Nell’estate del ‘42 le prove dei massacri sul fronte orientale erano però tali e tante da imporre a Usa e Uk di prendere una posizione più decisa. Roosevelt promise in agosto che i responsabili sarebbero stati processati nei Paesi nei quali si erano macchiati dei crimini. Churchill, sentendosi scavalcato, rilanciò l’8 settembre con l’annuncio pubblico della costituzione di una commissione speciale d’inchiesta sulle atrocità commesse dai tedeschi. Stavolta furono i sovietici a prendere malissimo l’annuncio, del quale non erano stati avvertiti preventivamente. Dopo settimane di schermaglie e gelo, bollarono la proposta come “troppo timida” e diedero vita a una propria Commissione straordinaria di Stato incaricata di raccogliere prove sui crimini tedeschi.

La distanza tra il progetto di Stalin e quello del Regno Unito era abissale e rispecchiava la opposta cultura giuridica dei due Paesi. L’Urss mirava a processi-spettacolo in cui la regia fosse decisa a priori sin nei particolari e nei quali dunque non ci fosse nulla da temere. Gli inglesi erano invece consapevoli dell’obbligo, una volta scelta la strada del tribunale internazionale, di rispettare le regole del rituale e non vedevano per quale ragione si dovesse correre i rischi inevitabili un processo reale. Suggerivano di risolvere la faccenda sbrigativamente, con un decreto che condannasse all’impiccagione i gerarchi del Terzo Reich a partire da Hitler. L’eventuale processo per crimini contro l’umanità presentava una difficoltà in più. L’accusa poteva essere rivolta anche contro i sovietici. Nel 1940 l’Nkvd (Commissariato del popolo per gli affari interni, erede della Gpu e predecessore del Kgb) aveva massacrato 22mila esponenti dell’élite polacca alle Fosse di Katyn. Nell’aprile 1943 la Germania diede notizia del massacro. Stalin risolse il problema a modo suo: attribuì l’eccidio ai nazisti e gli alleati finsero di credergli. Anche per stornare l’attenzione da Katyn, nel luglio 1943 i sovietici organizzarono il primo processo pubblico contro 11 persone, tutte russe o ucraine, accusate di aver collaborato con gli Einsetzgruppen nell’uccisione di 7mila civili, per lo più ebrei.

In dicembre, subito dopo la conferenza di Teheran fra “i tre grandi” i sovietici allestirono a Kharkov il primo processo in assoluto per crimini di guerra che vedesse militari tedeschi come imputati per lo sterminio di 14mila vittime, per la maggior parte ebree. Gli imputati, tre tedeschi della Gestapo e un collaborazionista ucraino, furono condannati e impiccati dopo un dibattimento nel quale fu per la prima volta smontata la tesi difensiva dell’aver obbedito a ordini superiori. Quando si svolse il processo di Kharkov, al quale Stalin diede massima pubblicità, si era già svolta tra ottobre e novembre la terza conferenza di Mosca, nella quale i ministri degli Esteri dei tre Paesi, il russo Molotov, l’inglese Eden e l’americano Hull concordarono per la prima volta ufficialmente l’intenzione di punire tutti i responsabili dei massacri nazisti, senza specificare però se passando o meno per processi formali. L’interrogativo non fu evaso neppure nella successiva conferenza di Teheran, dal 28 novembre al primo dicembre ‘43, nella quale Stalin illustrò tuttavia il progetto di eliminare tra i 50mila e i 100mila ufficiali tedeschi. Churchill e Roosevelt pensarono, a torto, che stesse scherzando.

Quando i tre leader si incontrarono di nuovo a Yalta, dal 4 all’11 febbraio 1945, la decisione sul come punire i capi della Germania nazista e i responsabili delle stragi non era ancora stata presa. Gli inglesi insistevano sulla condanna a morte per decreto ma nel corso del 1944 lo staff della Casa Bianca si era spostato sempre più vicino alle posizioni sovietiche. I consiglieri di Roosevelt ritenevano che la condanna a morte senza processo avrebbe potuto fare dei nazisti dei martiri e suggerivano una dinamica molto simile a quella poi effettivamente adottata: un primo processo contro i principali gerarchi e poi processi contro gli imputati di rango minore che avrebbero potuto svolgersi o nei Paesi colpiti oppure, di nuovo, di fronte a corti internazionali. Mentre la fine della guerra si avvicinava, il nodo non era ancora stato sciolto. Gli inglesi erano fermi sull’idea di un processo a porte chiuse alla fine del quale le condanne avrebbero dovuto essere emanate per decreto e non tramite formale sentenza. I sovietici reclamavano il processo pubblico secondo il rito spettacolare del 1937 a Mosca.

In aprile Harry Truman, diventato presidente dopo la morte di Roosevelt, ruppe gli indugi, bocciò la proposta inglese, in realtà condivisa da molti anche a Washington, perché “antidemocratica”, assicurò ai sovietici che anche con un processo formale e “garantista” i gerarchi sarebbero stati puniti. Il 2 maggio 1945, proprio mentre i sovietici issavano la bandiera sovietica sul Reichstag a Berlino, Truman, senza avvertire inglesi e sovietici, annunciò l’istituzione di un tribunale militare internazionale che avrebbe giudicato i responsabili del terrore nazista.