Non è certo la prima volta che una guerra civile si inserisce in un conflitto internazionale. Fu così in Italia nel 1943-45: una guerra che da soli, e senza una dimensione mondiale, non si sarebbe vinta, e forse neppure iniziata; e questo ricordo sostiene oggi chi pensa di assimilare la resistenza ucraina a quella italiana – vicende profondamente differenti – anche per meglio contrastare chi è contrario a forme più fortemente armate di “intervento umanitario”. Noi non crediamo agli interventi solo umanitari, non perché non siano ispirati anche da giuste finalità salvifiche, tra i vari obiettivi, quanto perché sono sempre sorretti da molte altre interessate valutazioni politiche, economiche ecc. Invece, trasmettere solo immagini di stermini degli ucraini, accanto a quelle della debolezza del nemico russo, appare un modo di argomentare criminalizzante e di parte che trascura le valutazioni più ampie del contesto geopolitico, capaci di spiegare e intendere una guerra di aggressione nelle sue “ragioni strategiche”.

In altri Paesi le cause della guerra sono più ampiamente discusse al pari dei suoi crimini. Veniamo così al tema che vorremmo affrontare: l’effetto del clima bellico e della logica del nemico sullo spazio che è rimasto alle ragioni del diritto. Inter arma silent leges (Cicerone, Pro Milone, 4, 11). È ancora vera questa regola antica? Finalmente gli esperti di “giustizia” sono ridotti al balbettio, e se non sanno mai dire, normalmente, che cosa succederà, ora neppure sanno che cosa deve succedere. Si invocano alte Corti di giustizia internazionale, una nuova Norimberga, si sostiene la censura che divide gli amici dai nemici, ma sono più i generali a parlare, oltre a qualche appassionato o esperto di geopolitica. Nella società civile chi non censura senza riserve è già visto dall’altra parte. Non sono ammesse imparzialità, i distinguo sono vietati o sempre contraddetti, sono concessioni a chi deve essere sconfitto e dopo, semmai, soltanto punito. È questa la logica del nemico, ed è esattamente la logica che non lascia spazio al diritto mentre lo sta invocando. Infatti, il ius non ha nemici, perché quando comincia a combattere la parte di un giudizio, è già diventato un’arma di offesa. In realtà l’unico diritto di cui è possibile parlare adesso è quello delle vittime, le vittime della guerra.

Sennonché il contesto nel quale è inserito tale diritto è ormai quello del delitto che si è commesso nel produrre queste stragi. È sempre il crimine di guerra, e dunque la criminalizzazione del nemico il tema giuridico che avvolge i diritti. La necessità dell’intervento armato e della difesa ad oltranza, che pare tutt’uno con l’escalation militare e di odio in atto, ha anche ridimensionato la ricerca delle strade per diminuire, di fatto, le vittime attraverso strumenti di pace: i diritti delle vittime dell’aggressione a una autodifesa diretta mettono in secondo piano il tema della riduzione delle vittime, perché la libertà politica, nazionale, esistenziale prevale sulla vita stessa. È una scelta di campo a favore di una guerra di indipendenza e di liberazione che consente agli ucraini di difendere per procura gli stessi interessi europei e occidentali, al prezzo delle proprie vite. L’appoggio militare e la promessa di entrare nell’Ue e chissà se in seguito anche nella Nato, oltre all’impegno economico per la ricostruzione, sono la contropartita che viene offerta a quel Paese, oltre all’accoglienza dei profughi.

Si tratta dunque di una apparente sconfessione di quell’antico e famoso assunto ciceroniano che la guerra, di fatto, mette il bavaglio alle leggi, perché si introducono difese legittime e costruzioni normative di future sentenze. Non solo esistono leggi di guerra (ius ad bellum, ius in bello), codici penali militari di guerra e trattati internazionali sull’uso delle armi, sul trattamento dei prigionieri e dei feriti ecc., ma diritti di fronte alla guerra. Il tema più nuovo, tuttavia, non è tanto quello dei diritti dei singoli, dei diritti umani di fronte alle armi, dei limiti a un uso “corretto” di strumenti di sterminio di massa. Sono due i temi emergenti: 1) se sia davvero possibile una guerra senza crimini di guerra e un giudizio legale di fronte al nemico; 2) se esistono diritti collettivi, di gruppi, di popoli, o di moltitudini, di fronte a conflitti militari.

Il primo interrogativo è disorientante. Non si può comparare qualche eccesso individuale e minore alle stragi di civili pianificate, agli stupri collettivi e sistematici, alle deportazioni, all’uso di armi solo letali potenziate per uccidere gli inermi. Eppure, chi non sa che le guerre non riguardano mai solo i militari uccisi? Che se i civili vi prendono parte attiva subiranno la medesima sorte? Che le guerre non sono solo di, e tra, eserciti? Che questa è la ragione per la quale alcuni le considerano un crimine in sé?  Dunque, la criminalizzazione dell’invasore, di chi entra in un territorio già diviso in fazioni ed eserciti, è quasi inevitabile anche senza la vigenza o l’applicabilità del crimine di aggressione, ma dà il segno di un mutamento culturale straordinario rispetto alle descrizioni classici dei libri di storia. La guerra di aggressione è un crimine che genera necessariamente altri crimini. Qui il diritto accompagna e segue gli eventi finché le armi non cederanno all’esercizio dei giudizi. Cedant arma togae è l’altro messaggio di Cicerone (De officis, I, 22, 77), questa volta prescrittivo.

Tuttavia, affinché il ius si possa davvero esprimere, la persona giudicata non deve essere più un nemico, ma un nemico sconfitto, perché chi maneggia ancora le armi può essere solo contrastato o neutralizzato, anziché giudicato in modo imparziale. I penalisti discutono da alcuni decenni del diritto penale del nemico, come quello che vede nell’imputato, o in certe tipologie di autori (per es. di terrorismo, criminalità organizzata ecc.) una non persona o preferibilmente una persona solo da neutralizzare e sbaragliare, da escludere senza possibilità di un dialogo interculturale e preventivo (è il modello delle leggi e prassi americane dopo l’11 settembre, o dell’art. 41-bis del nostro ordinamento penitenziario), che la pena dovrebbe poter normalmente attivare verso la coscienza di un soggetto “colpevole”, ma suscettibile di una restaurazione di valori pur sempre comuni o compresi.

In grande maggioranza i penalisti hanno concluso che il diritto penale del nemico (così inteso, non come diritto di guerra regolato, e in senso stretto) è un non diritto o un diritto illegittimo, perché, se legittimo, non può mai vedere un nemico nella persona giudicata o in esecuzione. Infatti, affinché un giudice rimanga terzo tra accusa e difesa, non deve sentirsi coinvolto in una guerra contro uno dei soggetti processuali. Il ius non sta dalla parte né dell’accusa, né della difesa. Per tali ragioni è ambiguo il suo impiego anticipato in un clima che induce a parlare del diritto solo se si è preliminarmente professata la condanna massmediatica di qualche criminale-macellaio e la fede nell’uso punitivo del ius contro di lui.

Il secondo quesito è assai più eversivo. La tutela dei diritti fondamentali non assicura le moltitudini, non le ha mai protette a sufficienza. Non parliamo dei “popoli”. I popoli, dal tempo del Leviatano di Hobbes (1651), hanno rappresentanze nazionali, e ceduto diritti agli Stati per essere protetti da nemici interni ed esterni. Così quando lo Stato li chiamava alle armi avevano l’obbligo di combattere, anche come carne da cannone. E i popoli “avversari” ancora oggi sono tutelati solo dal rispettivo Stato nazionale, che li può esporre a diventare in massa un obiettivo-target. Dopo la nascita dei diritti fondamentali sono tutti protetti anche nei confronti dei propri e altrui Stati, ma solo come individui o in vista della loro “autodeterminazione”, non come moltitudini. Invece il diritto di non essere coinvolti, come moltitudine, in una guerra che colpisce indiscriminatamente i “civili”, chi lo tutela? E il diritto di non prestarsi a commettere guerre di aggressione e crimini di guerra chi lo protegge? Le moltitudini non hanno diritti e i popoli li hanno ceduti.

Questo tema eversivo si collega al crimine di genocidio, la cui nascita giuridica, a Norimberga, riguarda la protezione di gruppi (nazionali, religiosi, “razziali” etc.), non di singole persone. Incriminare azioni finalizzate all’annientamento, sia fisico, sia culturale, di “gruppi” poteva criminalizzare tutto il colonialismo europeo, fino ai pilgrim fathers, come del resto è accaduto di recente con la critical race theory. Era dunque un reato politicamente pericoloso per gli Stati, per la rilettura della storia, per il nazionalismo. L’orrore della Shoah prevalse sulle resistenze che privilegiavano la protezione dei (soli) diritti individuali. Oggi si invoca di nuovo, e spesso senza basi consistenti, la violazione del genocidio, anche solo culturale, a proposito del conflitto in Ucraina. Ma non si tematizza ciò che veramente questa fattispecie ha costruito: il diritto di moltitudini non rappresentate nel popolo di una specifica nazione, di fronte agli Stati, a chi agisca per loro mandato, o a chi rappresenti un diverso “gruppo”. È questo un diritto estraneo alla logica del conflitto tra individuo e autorità, perché riguarda le moltitudini non rappresentate.

Chi protegge gli ucraini che non vogliono combattere, i russi che non vogliono prendere le armi, gli europei che non vogliono entrare in guerra? Che vi siano Stati democratici o Stati autoritari, democrazie o dittature, la sorte delle moltitudini non è tanto diversa. Hanno comunque ceduto alcuni diritti di cittadini e ora gli Stati dispongono delle loro vite, a tal punto che se non si “intruppano” sono già disertori, e se subiscono un attacco in massa come popolazioni aggredite, sono solo moltitudini che hanno al limite diritti individuali. Qui le leggi e il diritto non sono ancora arrivati e perché ciò avvenga occorre che si sviluppi un movimento che sostenga una pretesa giuridica delle moltitudini verso gli Stati, dei civili non belligeranti.

È giusto che una nazione combatta per la propria libertà e indipendenza, ma al prezzo che decide di voler pagare in proprio, anche se attraverso aiuti esterni. Tuttavia, se questo avviene in nome di nuovi nazionalismi internazionali, come quelli che hanno prodotto o sostenuto la maggior parte dei conflitti armati nella storia, o di contrapposizioni tra blocchi, allora cambia molto il contesto della difesa e del soccorso difensivo, e meglio sarebbe tutelare le moltitudini di civili non rappresentate, ma anche le più colpite, da qualche bandiera statale, il loro ius contra bellum. Ma chi vorrà riconoscere nuovi diritti a queste moltitudini senza rappresentanza negli Stati?