Ormai ovunque si raduni una folla è quasi certo che arriverà Conte a fare qualche selfie e stringere una mano. E però che il capo politico dei 5 Stelle si presenti nella piazza della Cgil rimane un (piccolo) avvenimento. Il non-partito fu infatti ideato da un imprenditore che modellava il partito-piattaforma come una sua cosa privata e da un comico che intendeva tagliare “i vecchi privilegi e le incrostazioni di potere del sindacato”.

Il bello della politica ridotta a pura comunicazione è che il chiacchiericcio che si presenta a flusso continuo cancella la memoria di cose appena dette. Evapora il principio di non contraddizione. E nessuno più a Corso Italia ricorda cosa sosteneva il M5S sul sindacato. Quando era ancora una esponente di rilievo dei grillini, Roberta Lombardi (che peraltro vedeva nel fascismo “un altissimo senso dello Stato e della famiglia”, una bella “dimensione nazionale di comunità”) chiedeva con determinazione l’abolizione dei sindacati, da lei dipinti come dei “grumi di potere che mercanteggiano soldi”. La convinzione profonda del non-partito in tema di relazioni industriali era così scolpita da un inequivocabile motto di Grillo: “Voglio uno Stato con le palle, eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti politici”.

La volontà di allontanare la mediazione svolta dalle confederazioni era collegata alla ripulsa della contrattazione nazionale e alla opzione per una legislazione curvata a favore della contrattazione aziendale. La “governance disintermediata” auspicata dal blog di Grillo combatteva in radice la funzione di rappresentanza dei sindacati, perché l’azienda era concepita come una omogenea dimensione di comunità nella quale non poteva entrare alcun segno di un conflitto di classe. “Classe”, che parola diabolica. Quando domenica in Tv Gianni Cuperlo l’ha evocata come concetto chiave per interpretare la tarda modernità, poco ci mancava che Rosy Bindi reagisse con il segno della croce.

Il populismo, che sta evolvendo in una salsa progressista, preferisce parlare di “diseguaglianze”, ma guai a fare come il mefistofelico Cuperlo, che osa parlare della persistenza di una organizzazione “di classe” della società. E’ più semplice per tutti i “progressisti” riempirsi la bocca con una categoria alternativa, e aconflittuale, così elastica che sembra fatta apposta per non vedere le classi come fenomeno di esclusione, precarietà, privatizzazione dei beni pubblici. Così contano solo i redditi o la residenza nelle odiate Ztl, e non resta che adottare, sulla base del modello 730, la rassicurante nozione di poveri come universo di esclusione e marginalità da aiutare con misure statali elargite a poteri sociali invariati.

Anche quando gli operai votavano in massa per Grillo o Salvini, il nemico per i populisti era la “casta” del sindacato. L’allora “capo politico” del Movimento, Di Maio, invocava “un paese competitivo” e per questo intimava: “I sindacati? O si riformano o ci pensiamo noi”. Il governo gialloverde adottava una “manovra choc” per ridurre il costo del lavoro e favorire le imprese, qualcuno proponeva anche di licenziare i dipendenti di migliaia di enti inutili. Conte era il garante di un contratto di governo che prometteva, con le parole del suo vice Di Maio, un “programma choc alla Trump: meno tasse alle imprese”, anzi “la riforma fiscale di Trump andrebbe copiata”, si faranno “grandi cose”.

Nell’80% del programma elettorale realizzato, cifra di cui Conte (che ne fu il Presidente del Consiglio “esecutore”) ancora tanto si vanta, c’è anche il reperimento delle risorse estratte dal lavoro e poi elargite a favore dei ricchi (con lo stesso reddito, il dipendente paga quasi il 45% di tasse alla fonte, l’autonomo o l’imprenditore cede solo il 15). Le risorse dirottate in maniera improduttiva dai governi della stagnazione verso i bonus o le agevolazioni fiscali non recuperano gli spazi necessari per sostenere politiche di cittadinanza. Il vero ritorno dello Stato come attore di innovazione e di inclusione sociale passa attraverso politiche industriali, il rilancio della sanità, della scuola, dei servizi, dell’amministrazione.

Da anni il Censis fotografa nei suoi rapporti una elevata propensione del voto dei ceti operai verso i sovranisti e i populisti. Agisce nelle coscienze una passione per il culto dell’uomo forte da vedere solo al comando, in una ubriacatura per le semplificazioni drastiche ordinate dal “martello del dittatore”, come direbbe Gramsci. La crisi dei soggetti della rappresentanza (politica e sociale) determina nel largo corpo elettorale suggestioni per la “velocità” eccezionale promessa dal decisore percepito come un essere baciato dal dono carismatico.
Nelle fasi critiche si assiste ai cedimenti dell’opinione pubblica, sedotta da politiche emozionali e infatuata per il richiamo delle simbologie regressive che, con le strategie eccitanti di media e “stampa gialla”, preparano “colpi di mano elettorali”. Secondo Gramsci, nelle scivolose crisi di sistema gli “organismi che possono impedire o limitare questo boom dell’opinione pubblica più che i partiti sono i sindacati professionali liberi”.

Il plebiscitario consenso operaio e popolare raccolto da movimenti che promettono meno tasse e più salari o pensioni, e contro il parlamentarismo acefalo accarezzano forme di democrazia autoritaria, chiama in causa l’eclissi della capacità rappresentativa del sindacato. La contrazione delle sue funzioni pubbliche non è meno grave nelle sue implicazioni di quella, ormai da tempo esplosa, dei partiti, incapaci di dare una efficace rappresentanza sociale a quelli che i Quaderni definiscono “i sedimenti di rabbia” che sempre affiorano nei tempi di crisi. Dinanzi allo smarrimento cognitivo di ceti sociali subalterni che si ritrovano regolarmente sedotti dalle narrazioni più inverosimili, occorrerebbe, secondo Gramsci, “un tirocinio della logica formale” per liberare le masse dalla contagiosa credulità prestata alle proposte di governo più contraddittorie (flat tax, bonus e superbonus per gli agiati). Quando in un sistema politico manca, come si esprime il pensatore sardo, “ogni movimento vertebrato”, con i soggetti del pluralismo sociale che appaiono incartati e inadeguati nella comprensione dei fenomeni di offuscamento delle coscienze collettive, il cammino trionfale del commissario antidemocratico con le sue “pose gladiatorie” diventa assai più rapido.

Incapaci di dare una efficace rappresentanza al lavoro, da un decennio i partiti e i sindacati hanno favorito, con i loro limiti culturali e cedimenti ideologico-organizzativi, le condizioni obiettive per l’insorgenza della crisi della democrazia. Nella loro indagine sulle “cause della catastrofe”, accanto alla condotta eccentrica dell’avversario, che alimenta con astuzia la fabbrica della “apoliticità irrequieta” della società civile e aggredisce la forma politica con la riduzione dei partiti a corruzione, scandalo, “casta” si direbbe oggi, i Quaderni sollevano anche la domanda circa la “immaturità delle forze progressive” che emerge dinanzi all’avanzata della soluzione carismatica.

Da dove ripartire dopo la sconfitta che registra l’esplicita disconnessione sentimentale tra le classi subalterne e i partiti e i sindacati della sinistra? Il discorso di Cuperlo, che riscopre la “classe” quale radice delle differenze che nascono nei rapporti sociali, è più convincente della predilezione di Bindi e dei nuovi “progressisti” per i poveri. Non ci sarebbero politiche per il lavoro, la crescita, per l’eguaglianza e i diritti fondamentali più sostanziali se, oltre alla dimensione del cittadino astratto, non si facesse un puntuale riferimento anche al corpo che lavora, all’asimmetria di potenza che nella produzione sussiste tra capitale e forza-lavoro, tra essere e avere. Nel suo Manuale di diritto privato anche un giurista cattolico come Pietro Rescigno avvertiva che, ancora nelle società industriali di oggi, “l’individuazione su basi classiste rimane il criterio che nella maniera più esatta spiega la rilevanza di situazioni che non sono status, ma nemmeno sono riducibili a situazioni isolate e momentanee nella vita delle persone”. La sinistra è la traduzione in un progetto politico delle differenze che nascono nei rapporti sociali, entro i quali la persona con la sua capacità e i suoi bisogni è ostacolata nella sua realizzazione dal principio organizzativo che rinvia al potere direttivo del capitale.

Nell’economia tecno-industriale moderna a base contrattuale esistono rapporti di dominio e di subordinazione che distinguono, nei poteri disponibili per i soggetti sociali, le figure del capitalista e del lavoratore. Aver rimosso le implicazioni più generali di questa realtà dello sfruttamento come potere dispositivo-organizzativo-selettivo, per cui il capitale decide in ultima istanza il senso della vita della persona, è alla genesi dei populismi di oggi. Queste manifestazioni di rivolta senza un progetto alternativo sorgono quando la sinistra e il sindacato rinunciano a politiche pubbliche e invocano una spartizione microcorporativa di bonus. Con la sottrazione di risorse già scarse alla fiscalità generale, i “progressisti” dimenticano il carattere costruttivo (di libertà e di diritti) del conflitto, possibile anche dentro l’universo della frantumazione e scomposizione dei produttori, delle figure sociali che ci si illude di unificare con un selfie.