Giunge notizia che proprio in questi giorni il Parlamento italiano ha recepito la direttiva dell’Unione europea numero 343 del 2016. Con tale direttiva, che punta a rafforzare la presunzione di innocenza, il Parlamento europeo ha stabilito che tale presunzione sarebbe violata se, con dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche come le Procure, l’indagato venisse presentato alla pubblica opinione come colpevole prima della sentenza definitiva.

Secondo il legislatore europeo, pertanto, le tradizionali conferenze stampa e i comunicati delle Procure, emessi per lo più in occasione dell’esecuzione di ordinanze cautelari, non dovrebbero mai rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole, almeno fino a quando non intervenga una sentenza del giudice, fatta comunque salva la tutela della libertà di stampa e dei media. L’obbligo, nel fornire informazioni ai media, di non presentare gli indagati come colpevoli, non impedirà tuttavia alle Procure di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato.

Fin qui le novità introdotte dalla direttiva europea che, se da un lato produrrà sicuramente l’effetto di contenere il numero delle conferenze stampa delle Procure, dall’altro non inciderà per ovvi motivi né sull’attitudine specifica dei capi delle Procure stesse a gestire i rapporti con gli organi pubblici di informazione né, più in generale, sulla qualità dell’informazione nel nostro Paese. Mi spiego meglio. Il problema del cortocircuito mediatico-giudiziario nasce nel nostro Paese all’epoca di Tangentopoli, cioè quando l’emersione di un profondo ed endemico sistema di corruzione politica determinò una profonda trasformazione anche dei rapporti tra Procure e organi di informazione.

L’eccezionalità del momento finì per legittimare, anche nell’opinione comune, una sorta di stato di eccezione in forza del quale tutto divenne lecito, dalle reiterate violazioni del segreto istruttorio alla instaurazione di rapporti privilegiati tra magistrati e giornalisti. Le confessioni a raffica e l’uso distorto del carcere preventivo completarono l’opera, facendo passare in secondo ordine la presunzione di innocenza, quasi si trattasse di una inutile formalità burocratica da abolire il prima possibile: tale era il ritmo con cui dalle indagini emergevano fatti sempre più nuovi e sempre più gravi. Vivevamo in un’epoca in cui chiunque venisse raggiunto da un’informazione di garanzia era per definizione colpevole e non aveva alcun senso parlare di giusto processo o della sua ragionevole durata.

A trent’anni di distanza, è oggi possibile – anzi, direi doveroso – cercare di recuperare un rapporto più corretto ed equilibrato tra giustizia e media, nel rispetto dei principi di continenza, interesse pubblico all’informazione e rispetto dei diritti della persona. Non sono altrettanto convinto, però, che la strada indicata dall’Ue sia la migliore, considerate le specificità del nostro Paese. Principalmente, non mi convince l’idea di un bavaglio alle Procure alle quali, per una più corretta informazione – se non si vuole peraltro correre il rischio di creare dei pericolosissimi canali informativi occulti – dovrebbe invece essere consentito fornire in maniera chiara e trasparente ogni notizia utile a comprendere i passaggi delle vicende di maggiore interesse per l’opinione pubblica, seppure ovviamente nel più totale rispetto della verità processuale, della presunzione di non colpevolezza e dei diritti di tutte le persone coinvolte (e quindi, inutile dirlo, anche di quelle già raggiunte da sentenze di condanna). Soprattutto, non vorrei che il divieto di divulgare informazioni sui procedimenti penali in corso, salvo che sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine, si trasformasse automaticamente in un bavaglio alla libera stampa, tenuto soprattutto conto dei tempi biblici che quasi sempre nel nostro Paese intercorrono tra indagine e sentenza del giudice.

Un modo più equilibrato di risolvere il problema potrebbe essere quello di istituire, almeno presso le Procure più grandi, dei veri e propri uffici stampa, simili a quelli già esistenti presso le Questure, in maniera da instaurare un rapporto più formale e trasparente tra organi di informazione e procuratori della Repubblica, ognuno quindi per la propria parte responsabile rispettivamente della gestione dell’informazione – in conformità alle leggi e al codice – e delle modalità di diffusione della notizia – in conformità del codice deontologico dei giornalisti. Perché i magistrati potranno anche essere a volte degli ottimi giuristi, ma troppo spesso appaiono come dei pessimi comunicatori.