L’idea che gli Stati Uniti attuino politiche imperialistiche è da decenni al centro di un intenso dibattito. Da una parte, vi è chi ritiene che la superpotenza egemone abbia costruito una struttura globale di controllo che si manifesta attraverso l’espansionismo militare, l’interventismo politico, il dominio economico e il soft power culturale. La presenza di basi militari in oltre 80 paesi e le numerose operazioni condotte in diverse regioni del mondo suggeriscono una strategia di dominio volta a proteggere interessi strategici e risorse economiche.

L’interferenza nelle politiche interne di paesi come Iraq, Afghanistan, Libia e Siria viene spesso vista come un tentativo di imporre un ordine geopolitico ed economico favorevole alla sua proiezione di potenza. Inoltre, istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, attraverso politiche neoliberiste, consentirebbero a Washington di influenzare profondamente le economie di paesi in via di sviluppo, spesso condizionandone le scelte politiche.

Il controllo culturale esercitato dall’industria dell’intrattenimento americana e dalla tecnologia, con il predominio di colossi come Hollywood, Netflix o i grandi social network, è considerato un esempio di egemonia culturale che omologa valori e stili di vita globali. Anche storicamente, la Dottrina Monroe e l’interventismo in America Latina sono stati interpretati come una base ideologica per un comportamento imperialista, mirato a consolidare l’egemonia regionale. Oltre a questo, la protezione delle risorse energetiche globali, praticata per molti anni soprattutto in Medio Oriente e Venezuela, confermerebbe una strategia di sfruttamento economico e controllo.

Dall’altra parte, vi sono argomenti contrari che sottolineano come il ruolo globale degli Stati Uniti sia piuttosto quello di una leadership basata sul consenso, volta a garantire stabilità, diritti e progresso. Gli Stati Uniti, infatti, operano spesso attraverso alleanze internazionali e istituzioni multilaterali come la NATO o l’ONU, dimostrando di non essere un attore unilaterale. La promozione di democrazia, diritti umani e libertà economica viene presentata come una responsabilità morale piuttosto che come una forma di dominio. Inoltre, il consistente impegno americano negli aiuti economici e umanitari, rivolti sia a Paesi in via di sviluppo che a emergenze globali, contrasta con l’immagine di uno sfruttamento imperialista.

A differenza di imperi storici come quello britannico o francese, gli Stati Uniti non possiedono colonie tradizionali, e molte delle nazioni alleate scelgono volontariamente di collaborare per beneficiare del supporto economico e militare offerto. Pur essendo una potenza globale, gli Stati Uniti agiscono spesso attraverso il rispetto di accordi internazionali e meccanismi condivisi, dimostrando un certo grado di multilateralismo. Infine, le politiche americane non seguono sempre un disegno unitario: l’alternanza delle amministrazioni, con priorità diverse, riflette la complessità di un sistema democratico che non sempre può essere paragonato alla logica univoca di un impero.

La verità probabilmente risiede in una zona intermedia: da un lato, gli Stati Uniti esercitano un’enorme influenza globale attraverso strumenti economici, militari e culturali che possono essere interpretati come una forma di imperialismo moderno; dall’altro, questa capacità di condizionamento viene spesso giustificata dalla necessità di mantenere l’ordine internazionale, garantire stabilità e sostenere valori condivisi. Questa ambivalenza potrebbe forse spiegare la ricorrente tendenza della politica internazionale americana a oscillare tra due opposte tentazioni.

La prima è quella di garantire la tenuta e la stabilità di un sistema di regole basato sulla cooperazione con i principali alleati e sulla volontà di considerare le altre grandi potenze (anche) come partner e non solo come rivali strategici. La seconda, che sta diventando prevalente con l’amministrazione Trump, di ritirarsi a casa propria e perseguire una strategia  “libera da vincoli”, in linea con l’idea che accordi e alleanze vadano rivisti con l’obiettivo di ottenere volta per volta le condizioni migliori per gli interessi nazionali, come lo slogan America first! mette chiaramente in luce.

Lo slogan della campagna elettorale di Trump, Make America Great Again, non fa solo un evidente riferimento alla grandezza degli Stati Uniti, ma lascia chiaramente capire la riluttanza dell’America di Trump a sostenere i costi di mantenimento dell’ordine internazionale liberale e delle sue istituzioni multilaterali. La stessa propensione neoprotezionista, non certo in sintonia con la storia del Paese che ha promosso la globalizzazione, rivela che alla Casa Bianca siede ora un presidente che nutre scarsa fiducia nella tradizionale politica di apertura dei mercati internazionali. 

Tutto ciò non rappresenta una novità assoluta, poiché si limita in fondo a estremizzare un orientamento espresso con chiarezza negli anni Novanta del secolo scorso dall’allora segretario di Stato Madeleine Albright, che affermava: “Gli Stati Uniti agiscono in maniera multilaterale quando possono, unilaterale quando devono”. E che coglie, ancora una volta, l’Europa impreparata rispetto alle sfide che si trova a dover fronteggiare. Tuttavia, paradossalmente, proprio questa situazione restituisce nuova attualità alla questione non del cosiddetto sovranismo, che rappresenta solo una manifestazione superficiale del problema o una risposta sbagliata, ma della sovranità politica europea, esercitata da istituzioni europee capaci di agire in nome e per conto dei loro cittadini e ispirate alla logica dei diritti umani e del diritto internazionale.

Non si tratta certo di una strada facile da percorrere, ma chi, oggi, se non l’Europa, è in grado di portare avanti un ordine internazionale basato sul multilateralismo e su una visione policentrica del mondo, in modo da garantire la stabilità anche senza il monopolio della forza di un governo mondiale?