In piazza in 12 aprile del 1973 c’erano Ignazio e Romano La Russa, oggi rispettivamente presidente del Senato e assessore alla Sicurezza della Regione Lombardia, e forse anche per questo, non solo perché sono passati 50 anni tondi dalla morte dell’agente Antonio Marino negli scontri di quel giorno a Milano, i media hanno dedicato grossi titoli ma scarno contenuto a quel “giovedì nero”. Fu in realtà una tempesta che minacciò di travolgere il Movimento Sociale Italiano e rovinò per sempre il progetto di Giorgio Almirante.

Tornato segretario del Msi dopo 21 anni esatti, il 29 giugno del 1969, Almirante aveva mostrato subito un dinamismo ben diverso dalla gestione modesta e moderata di Arturo Michelini. La sua nuova organizzazione giovanile, il Fronte della Gioventù, provava a contendere alla sinistra, per lo più a mazzate, lo spazio politico nelle scuole e nelle università. Il partito, messa da parte la nostalgia, si presentava come partito d’ordine e calamitava i consensi della piccola e media borghesia terrorizzata dalla conflittualità permanente di quegli anni. Nelle elezioni amministrative del 1971 conquistò circa il 15% dei voti con trent’anni di anticipo sulla An di Gianfranco Fini. Nelle politiche del ‘72 balzò dal 4,45% di 4 anni prima all’8,67%.

La miscela di militanza aggressiva e doppio petto “legge e ordine” funzionava. Il “nuovo” Msi stava diventando una realtà con cui fare i conti. L’uccisione del poliziotto di 22 anni Antonio Marino, in una giornata di violentissimi scontri tra neofascisti e polizia, seppellì per sempre l’immagine rassicurante che il segretario aveva cucito intorno al suo Msi e ripiombò la Fiamma nella marginalità politica. La manifestazione del Msi di quel giorno se la era davvero inventata Ignazio La Russa, figlio del senatore missino Antonino, responsabile del Fronte della Gioventù a Milano. Nella capitale morale, avrebbe raccontato anni dopo il dirigente del Msi Tomaso Staiti di Cudia al giornalista Nicola Rao per il suo libro La fiamma e la celtica, la situazione giovanile stagnava: «Dopo la vittoria del 1972 a Milano si ferma tutto. Il mondo giovanile si ammoscia ma non vuole ammosciarsi. Intanto comincia a crescere l’astro di Ignazio La Russa e tutti insieme decidiamo di fare una grande manifestazione».

Formalmente il corteo è indetto “contro la violenza rossa”. In realtà si tratta di riaffermare la presa del Msi sui giovani di estrema destra che sfuggono al controllo. C’è Avanguardia Nazionale, che sta mettendo radici anche in Lombardia, c’è il gruppo de La Fenice, che ci va giù pesante col tritolo, soprattutto ci sono i militanti di piazza San Babila, molti dei quali hanno in tasca anche la tessera del Msi ma non si riconoscono nella linea del partito: sono incontrollabili e armati, per molti versi più anarchici di destra che davvero fascisti. Il federale di Milano Servello e La Russa decidono di aggiungere un po’ di spezie alla manifestazione invitando Ciccio Franco.

Senatore del Msi, Franco era stato leader della rivolta di Reggio Calabria nel 1970, la più lunga rivolta urbana nell’occidente postbellico a tutt’oggi, egemonizzata dalla destra soprattutto perché il Pci e la sinistra in generale, con le sole eccezioni di Lotta continua e Potere operaio, si erano schierato contro quella che consideravano una jacquerie plebea. Alla vigilia della fatidica prova di forza due dirigenti del FdG, Gigi Radice e Piero De Andreis vengono spediti nei bar di San Babila per chiedere agli estremisti che sono lì di stanza di partecipare alla manifestazione. “La parola d’ordine era: mobilitazione generale. Nessuno poteva o doveva disertare”, ricorderà decenni dopo uno di quei “sanbabilini”.

Non si può dire che in quell’occasione la gestione dell’ordine pubblico sia stata lungimirante e accorta. Tre giorni prima della manifestazione il prefetto Libero Mazza convoca i dirigenti del Msi e chiede di cambiarne il percorso. L’11 aprile vieta anche il nuovo corteo consentendo solo il comizio di Ciccio Franco. La mattina del 12 viene proibito anche il comizio. I dirigenti del Msi non sanno più cosa fare. Fosse per loro a quel punto mollerebbero, propongono di soprassedere e chiedere ai militanti di tornare a casa ma è troppo tardi. I giovani del FdG si sentono traditi e tra quelli che si ribellano più apertamente c’è Romano La Russa, fratello minore di Ignazio, che rifiuta di distribuire i volantini fatti stampare in tutta fretta dal leader nazionale del Fronte Massimo Anderson.

Il divieto deciso all’ultimo momento dal prefetto Mazza si spiega in parte con il fallito attentato di pochi giorni prima, 7 aprile, sul treno Torino-Genova-Roma. Doveva essere una provocazione contro la sinistra extraparlamentare: Nico Azzi, sanbabilino aderente a La Fenice, si era fatto notare il più possibile sul treno con il quotidiano Lotta continua in tasca. Poi si era chiuso in bagno per innescare la bomba che sarebbe dovuta esplodere nel treno e che invece gli scoppia tra le gambe. Azzi è indirettamente responsabile della tragedia del giovedì nero anche per un altro motivo: prima di partire per la sua provocazione esplosiva lascia a un militante di San Babila, Davide Petrini detto “Cucciolo”, alcune bombe a mano Srcm 35 da esercitazione.

Petrini, che ha un braccio ingessato, le passa a Maurizio Murelli, 19 anni, uno dei principali leader di San Babila che però, a differenza della stragrande maggioranza degli altri e dello stereotipo classico del “sanbabilino”, viene da una famiglia operaia. Le bombe di Azzi sono da esercitazione, con una carica di appena 40 grammi di tritolo. I neofascisti con il servizio militare alle spalle le considerano poco più che petardi e così le indicano a Murelli, non ancora passato per la naja. In centro la situazione degenera subito. Il Msi e il FdG sono radunati a piazza Tricolore, i sanbabilini e gli extraparlamentari ai bastioni. Qui gli incidenti divampano già dal primo pomeriggio con attacchi ai licei considerati “rossi”, invasione della Casa dello Studente, scontri frontali con la polizia. I militanti di San Babila di solito girano armati, depositare le rivoltelle nei vasi delle piante di fronte ai bar della piazza è abitudine quotidiana.

Alla manifestazione vanno però quasi tutti disarmati: anche Murelli che lascia la pistola nel cruscotto ma si porta dietro tre bombe Srcm, convinto che siano quasi innocue. Evelino Loi, figlio del campione di pugilato Duilio, lo vede armeggiare con gli ordigni e se ne fa dare uno. Alla prima carica della polizia Murelli lancia una delle bombe contro un’edicola: fa molto rumore e nessun danno. La seconda Srcm non esplode. Quella che tira Loi invece colpisce al petto l’agente Marino che in una sorta di riflesso automatico, senza avere il tempo di capire di cosa si tratta, se la stringe al petto. L’esplosione lo dilania e lo uccide.

In piazza Tricolore, intanto, i dirigenti del Msi, allo sbando, decidono di partire in corteo, con Servello, Ciccio Franco, Massimo Anderson e Ignazio La Russa in prima fila. Quando arriva la notizia della morte di Marino la Fiamma decide subito di mollare i sanbabilini e annuncia una taglia di 5 milioni per chi denuncerà i colpevoli. Radice, lo stesso che aveva tenuto i rapporti con San Babila per conto del Fronte, denuncia i due sanbabilini e intasca i 5 milioni. Murelli viene fermato il giorno stesso ma subito rilasciato, Loi il giorno dopo. Almirante però insiste, si fa dire da Servello i nomi dei responsabili e il Msi li denuncia. Ricercato, Murelli si costituisce a Firenze il 16 aprile.

Loi, in carcere, accusò i vertici del Msi, inclusi i fratelli La Russa, di essere al corrente delle bombe, poi ritrattò. La posizione di Ignazio fu archiviata, il fratello minore fu rinviato a giudizio e assolto. Murelli e Loi furono condannati a 19 e 18 anni di carcere. Il Msi non si riprese mai dalla mazzata fatale inflitta quel giorno alla sua credibilità come partito d’ordine. Secondo Rao il rischio di una sua messa fuori legge fu reale anche se le tentazioni in quel senso furono cancellate da un’altra tragedia, stavolta a Roma e con i missini nella parte delle vittime, il rogo di Primavalle del 16 aprile. Guardando a ritroso oggi è facile rendersi conto che il giovedì nero di Milano fu anche un’anticipazione di quanto sarebbe avvenuto su ben più ampia scala alla fine del decennio quando altri giovani militanti, sentendosi abbandonati dal Msi e trattati come carne da macello, diedero vita ai Nuclei Armati Rivoluzionari, i Nar.