Il comunicato del Consiglio direttivo della Bce afferma la nuova visione con chiarezza: «Nella misura in cui alcuni limiti autoimposti ostacolassero l’azione che la Bce è tenuta a intraprendere per adempiere al suo mandato, il Consiglio direttivo prenderà in considerazione la possibilità di rivederli nella misura necessaria per rendere la sua azione proporzionata ai rischi che dobbiamo affrontare». Non è un caso che sia un organismo “integralmente” federale come la Bce – l’unico, tra quelli dell’Unione, a essere davvero tale – a prendere su di sé l’incarico di indicare la strada da seguire ai governi e ai cittadini europei nel loro complesso.

Altro che “facciamo da soli”, dunque. Oggi è possibile utilizzare le scelte compiute dalla Bce come la prova della efficacia dell’approccio comunitario – il costo del debito pubblico è immediatamente tornato a dimensioni “normali”dopo la decisione della Banca centrale: in sua assenza, oggi si starebbe già discutendo del default del debito pubblico italiano-, rispetto a quello intergovernativo. Quest’ultimo infatti, fondato sulla contrattazione tra gli Stati in presenza di problemi che hanno soluzioni a somma zero (ciò che guadagna uno viene perso dall’altro), non può risultare utile quando il problema da risolvere è lo stesso per ogni Stato membro e impone soluzioni cooperative, pena il male comune.

Sottolinearlo, non è vuota retorica europeista: di fronte ai ritardi e ai rinvii degli organismi politici dell’Unione, molti cittadini e la quasi totalità dei commentatori hanno intonato il “de profundis” sulla costruzione europea in quanto tale: a che serve l’Unione, se non ha un ruolo in circostanze così drammatiche? Lo Stato nazionale è la nostra salvezza: possiamo farcela anche da soli.  Che nella gestione di una crisi come quella del coronavirus lo Stato nazionale – anche quello delle “piccole” nazioni europee – abbia molto da dire e da fare, è ovviamente vero. Ma sono bastate poche ore per distinguere questo “vero” dalla facile propaganda anti-europea. Lo ha spiegato bene Olivier Blanchard: quando è scoppiata la crisi, il debito pubblico italiano era pari al 135% del Pil e lo Stato pagava, sulle nuove emissioni, un tasso di interesse inferiore all’1%. Per la stabilizzazione del debito a quei livelli, bastava dunque un avanzo primario annuo attorno all’1%. Ampiamente sostenibile.

Ma se la crisi coronavirus riduce di molto le entrate (tutto chiuso, giustamente) e aumenta enormemente le uscite (tutto il necessario a salvare vite umane, giustamente), mentre lo spread aumenta (in un solo giorno, quando sembrava che la “Bce non fosse al mondo per ridurlo”, oltre 100 punti base in più), e con lui i tassi di interesse salgono, l’avanzo primario necessario per stabilizzare il debito (nel frattempo salito vicino al 145% del Pil) sarebbe più vicino al 5% annuo che all’1. Assolutamente insostenibile, sia economicamente (una simile stretta accentua la caduta del Pil), sia politicamente (l’offensiva populista, già formidabile, avrebbe facilmente ragione delle residue resistenze liberaldemocratiche).

Il rischio che la crisi coronavirus torni ad alimentare una violenta offensiva populista, consentendo ai partiti che la conducono di lucrare consenso facendo da cassa di risonanza ai ritardi, alle incertezze e alle assenze degli organismi politici comunitari, è molto elevato: oggi i cittadini europei stanno diligentemente sopportando, in nome del bene comune, gravi limitazioni alle loro libertà e concreti disagi. Ci vuole poco a trasformare tutto questo in rabbia verso chi – l’Unione Europea – dovrebbe e potrebbe aiutare, ma non lo fa (o non lo fa nella misura necessaria).  In Italia, Salvini sta da giorni soffiando sul fuoco: «… Noi vogliamo usare i soldi degli italiani. L’anno scorso il Pil degli italiani è stato pari a 1 miliardo e 800 milioni di euro; la spesa pubblica è stata pari a 800 milioni di euro. I soldi ci sono. Possiamo fare una emissione di Buoni del Tesoro straordinaria, garantita dalla Bce, e rivolta alle banche italiane e ai risparmiatori italiani? Sì, possiamo farlo…».

Lasciamo stare gli strafalcioni sulle dimensioni del debito e della spesa (sono entrambi mille volte più grandi)… Lasciamo stare che la spesa statale al 100% del Pil non l’avevano neppure in Unione Sovietica… Lasciamo stare che la Bce, per statuto, non può “garantire” il debito di un singolo Paese. E lasciamo pure perdere, per carità di patria, l’ineffabile intervistatrice della tv pubblica: «Non c’è il rischio che questa emissione… ci metta in condizione di essere poi sotto, insomma, il Fondo salva Stati?». Tutto ciò dimostra soltanto che il leader del centrodestra italiano,- con buona pace di quanti invocano il Governo di unità nazionale -, non sa nulla di ciò che dovrebbe sapere per svolgere il suo ruolo di capo della opposizione. Prima o dopo, i cittadini italiani (e anche i conduttori di salotti televisivi) se ne accorgeranno.

Ha invece grande importanza – per il presente e il futuro dell’Italia – ciò che queste parole dimostrano, al di là di ogni ragionevole (o interessato) dubbio: Salvini non intende – e forse non può – rinunciare alla architrave che regge l’intera sua costruzione politica: l’Italia fuori dall’euro e, se è necessario a questo scopo, fuori anche dall’Unione. Questo rende anche politicamente urgente la svolta verso la costruzione di una politica fiscale dell’Europa: senza questa seconda gamba, lo strumento della politica monetaria – per quanto ben utilizzato – non ha la potenza di fuoco necessaria.