La morte di George Floyd a Minneapolis ha scatenato un’ondata di reazioni anche in Italia. Sui social molti commentatori hanno proposto un paragone con la vicenda di Stefano Cucchi; quasi nessuno si è spinto a fare quel passo in più, riconoscendo che anche nel nostro Paese esiste, seppur in forme differenti, una questione irrisolta sulle discriminazioni razziali. Eppure negli ultimi due anni sembrava che il tema “razzismo” avesse finalmente conquistato centralità nel dibattito pubblico. Ricordiamo tutti l’omicidio di Soumaila Sacko a colpi di fucile in Calabria, la tentata strage razzista di Macerata, le proteste a Torre Maura e Casal Bruciato. A fronte di questi episodi gravissimi la politica italiana ha reagito nel modo peggiore. A destra, sulla scia di Salvini, si è operata una negazione sistematica del problema, riducendolo a fatto interpersonale, con una dose di dogmatismo tale da raggiungere toni farseschi. A sinistra – intesa in senso largo nei suoi tradizionali corpi intermedi – si è preferito ricorrere a condanne simboliche o morali, come se la violenza razzista, fosse una questione di buoni sentimenti o peggio di buona educazione, mai di diritti negati o di politiche sbagliate.

In questo modo, si è colpevolmente ignorato il dato strutturale delle discriminazioni razziali che attraversano il nostro paese sul piano economico, sociale, istituzionale e politico, dalla stazione centrale di Milano al porto di Lampedusa. Persino le iniziative spontanee partite dal basso, seppur lodevoli in assenza di una grande mobilitazione nazionale, hanno riproposto questo modello fortemente depoliticizzante e autoassolvente. Ne è un esempio il caso delle Sardine, per cui il problema razzismo in Italia è sembrato esaurirsi in una questione di linguaggi d’odio sul web, mentre nel nostro paese ci sono ragazzi giovanissimi che arrivano dalla Libia, a cui si impone un destino da bracciante-schiavo, senza valide alternative educative o formative. E che dire sul tema della rappresentazione mediatica? A parte qualche luminosa eccezione come il sindacalista Aboubakar Soumahoro, in questi anni di mobilitazione non si è voluto fare emergere leadership inclusive riconoscibili che parlassero per le proprie comunità, senza bisogno di portavoce o ventriloqui, come accade in tutti i paesi europei.

Non c’è bisogno di ricordare che in parlamento, l’unico senatore nero, Toni Iwobi, è stato eletto dalla Lega nonostante nella legislatura precedente il Pd avesse Cécile Kyenge e Khalid Chaouki tra le fila del suo gruppo parlamentare. Del resto, persino il volto della battaglia contro i “porti chiusi” è stato quello di una donna bianca, la tedesca Carola Rackete, mentre dei naufraghi a bordo della Sea-Watch non si conosce neanche un nome. Il discorso sulle leadership non è una questione formale, ma sostanziale che riguarda l’approccio del paese su questi temi: un arretratezza culturale che fa concepire uomini e donne di colore in Italia, specie se migranti, unicamente come oggetti: da punire o rimandare “a casa loro” o da salvare e compatire, per citare la studiosa Miriam Ticktin, dipende dalle circostanze; mai come soggetti autonomi, titolari di diritti, e capace di parlare per sé.

Ecco perché la partecipazione emotiva ai fatti di Minneapolis dovrebbe essere un’occasione di svolta per fare finalmente un bagno di realtà nell’Italia del 2020. Esiste una questione irrisolta anche nel nostro paese; diversa da quella americana per ovvi motivi storici, ma comunque pienamente politica e non meramente umanitaria. Una questione “razzismo”, che riguarda tutta la nostra comunità nazionale, non una parte di essa, e la discussione che ci ostiniamo a non fare sul futuro del nostro Paese.