“Come sei finito in bancarotta?”, scrisse Ernest Hemingway nel suo romanzo d’esordio. “In due modi: gradualmente e poi all’improvviso”. Lo stesso sta accadendo all’Occidente e al suo apparente sfaldamento. In un contesto dove le iperboli sono diventate il registro dei comunicati ufficiali, è impossibile rimanere sobri. Dopotutto, la caduta dell’Occidente è stata preconizzata almeno da quando Oswald Spengler pubblicò l’omonimo saggio un secolo fa. Tra proclami e insulti, dal discorso di J.D. Vance a Monaco in poi, era difficile nelle ultime due settimane individuare il punto più basso tra quelli raggiunti dalla retorica americana. La dissoluzione si è celebrata in mondovisione all’improvviso venerdì sul tempio più venerato, l’Ovale della Casa Bianca, per poi essere suggellata ieri con l’interruzione degli aiuti militari degli Usa all’Ucraina.

Dall’11 settembre ai 20 giorni a Mariupol

La desolante sequenza di eventi rimarrà un nadir per l’Occidente. Come per l’11 settembre, tutti ci ricorderemo dove eravamo quando abbiamo visto l’umiliazione di Zelensky da parte di Trump e del suo vice. A differenza della tragedia del 2001, questo non è stato un momento in cui l’Occidente si è compattato nella commozione e nella protezione dei suoi valori fondamentali; è stato il momento in cui abbiamo assistito al loro sfaldamento. Basterebbe – ha spiegato in un recente dibattito a Firenze la corrispondente di guerra Rai, Stefania Battistini – poter proiettare in prima serata immagini come quelle del documentario premio Oscar “20 giorni a Mariupol”. Più dei trattati internazionali e della diplomazia, è la testimonianza dell’indicibile sacrificio della popolazione ucraina che dovrebbe rinsaldare i nostri valori e i legami di civiltà. È la sofferenza umana e la nostra compassione verso di essa che dovrebbero distinguerci dalla brutalità e dal cinismo. Questo è esattamente ciò che accadde subito dopo l’infamia dell’11 settembre. Ma non è quanto sta accadendo oggi, specialmente a Washington, dove sembrano invece rassegnati e assuefatti alla degenerazione.

Europa pugile suonato

L’Europa in questa fase è un pugile suonato tanto dalle disposizioni americane quanto dal nostro disorientamento sulla rotta futura. Francia e Regno Unito hanno preso le redini del coordinamento continentale e del dialogo con Washington, in attesa del riallineamento post-elettorale in Germania. Al vertice di domenica a Londra è emerso plasticamente che il tipo di garanzie alla sicurezza ucraina che Zelensky ha tentato di illustrare alla Casa Bianca non potrà concretizzarsi senza la rete di protezione americana, che a oggi non è evidentemente disponibile. Alla luce della postura degli Stati Uniti, sembra al momento illusoria l’idea che possano esistere ponti o interlocutori privilegiati con questa America. L’Europa dovrà da ora operare con realismo le leve negoziali a sua disposizione per strappare concessioni da Trump.

Per questo, e con la massima lealtà, è doveroso denunciare i limiti del richiamo del nostro governo alla civiltà occidentale in uno degli unici comunicati europei che – dopo l’umiliazione di venerdì – non hanno espresso solidarietà esplicita a Zelensky. È necessario appellarsi alla credibilità che la nostra presidente del Consiglio ha conquistato sul campo in questi oltre due anni nella vicenda ucraina. Non ci voleva Nostradamus per scrivere, come si fece tre mesi fa su queste pagine: “È pressoché inevitabile che arriverà un momento dove Trump metterà l’Europa davanti ad un bivio […] e quest’Italia così credibile sarà costretta a dover scegliere da che parte stare”. Quel momento è arrivato, seppur forse prima di quanto si immaginasse. Non c’è spazio per i tatticismi o per mezze misure. Dobbiamo resistere con tutte le nostre forze, affinché allo sfaldamento inesorabile dell’Occidente non faccia anche seguito la nostra bancarotta morale.