L'editoriale
Dazi interni e liberalizzazioni fasulle: quello che i libdem italiani non vedono

Ci è voluto Mario Draghi dalle colonne del Financial Times per scoperchiare la pentola dei troppi dazi interni all’Unione europea, che pesano già di più di quanto potranno pesare i nuovi dazi esterni. Ci vorrebbe invece un novello Ernesto Rossi per scoperchiare la pentola dei dazi interni al sistema economico sociale italiano. Dazi che contribuiscono anche, tra l’altro, ad aumentare le bollette dell’energia. Dazi che derivano dalla struttura socialmente corporativa e para-feudale di molti ambiti e settori dell’economia italiana. Agli effetti delle corporazioni si aggiungono quelli degli ordini professionali chiusi e di una sorta di gilde che compongono una specie di feudalesimo di ritorno.
Ebbene, su questo dovrebbero confrontarsi gli addetti a vario titolo al cantiere del centro, o della terza forza, o dei liberaldemocratici. Abbiamo avuto solo cinque leggi annuali sulla concorrenza rispetto alle diciassette che avremmo dovuto avere. Quindi non solo sono stati saltati molti appuntamenti annuali, ma le leggi annuali sulla concorrenza uscite dal Parlamento sono per molti versi asfittiche e rachitiche: non incidono veramente sulle necessarie liberalizzazioni. Nell’Italia del presentismo, ritrovare il senso storico non è certo facile.
Ma i predecessori più accreditati dei troppi ingegneri e architetti (decisamente meno sono invece gli operai) addetti al cantiere del centro, o della terza forza, si dovrebbero rifare alla stagione migliore in cui è emersa la questione della terza forza. La stagione del “Mondo” di Pannunzio, dalle cui pagine Ernesto Rossi e vari altri tuonavano contro i monopoli e già dagli anni ’50 chiedevano adeguate liberalizzazioni che ancora si attendono. I troppi ingegneri e architetti addetti al cantiere del centro liberaldemocratico dovrebbero poi sapere che non solo l’Italia soffre di “mal di crescita” sostanzialmente da trent’anni, ma che questa malattia è dovuta per larga parte – oltre che al “mal di competitività” e al “mal di produttività” – al “mal di concorrenza”.
Questo infatti non è solo il paese dei balneari che si sono eretti come un sol uomo, trovando molti difensori a destra come a sinistra, a difesa delle loro rendite assurde, o dei tassisti. È il paese delle troppe congregazioni e corporazioni, oltre che dei troppi ordini professionali chiusi. Da qui derivano i dazi interni, spesso impliciti e da ben pochi percepiti o scovati, che paghiamo. A distinguere i liberaldemocratici dovrebbe essere appunto il concentrarsi sul “mal di concorrenza” e l’individuare terapie adeguate, fatte di liberalizzazioni e di altri aspetti idonei a scardinare le troppe catene corporative. Tra l’altro è questa la vera eredità del modello corporativo su cui si basava il fascismo. E a questo si dovrebbe dedicare un vero antifascismo operativo, tanto più un antifascismo di impronta liberaldemocratica. Si suonano invece fanfare o “Bella Ciao” in vari appuntamenti, ma nessuno si dedica a scardinare il vero lascito consegnato dal modello fascista.
Almeno qualche esponente liberaldemocratico dovrebbe sapere che il nodo di fondo dell’Italia è che abbiamo avuto le liberalizzazioni, specie con la tappa fondamentale della liberalizzazione degli scambi con l’estero del ’51, che hanno spalancato le finestre del sistema autarchico-fascista verso l’estero, ma non abbiamo avuto la liberalizzazione interna.
Ecco un tema che i vari sedicenti libdem (che tra i vari vizi non mi pare abbiano tanto quello di studiare) dovrebbero capire, per poi individuare e cercare le terapie per i veri nodi che aggrovigliano la società italiana. Temo invece che, a una certa incapacità di lettura dei veri ostacoli economico-sociali dell’Italia, si aggiunga il timore di toccare man mano troppe corporazioni o i troppi ordini chiusi che costituiscono il feudalesimo di ritorno italiano.
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