Le responsabilità
Decisionismo a confronto: Conte furbetto, De Luca lineare

Con il governo Conte stiamo sperimentando una nuova forma di decisionismo. Quasi un “armiamoci e partite, io vi seguo dopo”, per dirla come Totò ai Tebani contro Maciste. Un decisionismo senza responsabilità. Un decisionismo che altrimenti si potrebbe definire “barocco“, perché palese ed eccessivo, ma anche doppiamente sospeso nel vuoto: primo, perché praticato da un premier non eletto, sebbene legittimato da un voto parlamentare; e, secondo, perché espressione di un potere che strategicamente – ecco il punto – raccoglie consensi “scaricando” su altri il peso delle proprie contraddizioni.
Tutt’altra cosa, insomma, rispetto al decisionismo non certo sobrio, ma assolutamente lineare, di un governatore come De Luca. Il quale non solo è stato scelto con un voto diretto, ma volutamente – e per giunta senza assessori o apparati a fargli da scudo – continua a sfidare il dissenso: ultimo caso quello delle librerie tenute chiuse nonostante gli accorati appelli di scrittori, lettori e intellettuali. Il decisionismo è una prassi di comando che alcuni – in chiave populista – spesso invocano contro la crisi dei regimi parlamentari e contro la deriva neocorporativa dello Stato sociale; e altri – in chiave iperpolitica – vivono invece come un rischio per la democrazia partecipata.
Ora, che quello di Conte sia decisionismo è fuor di dubbio: il capo del governo giallorosso decide da solo, senza neanche convocare tutti ministri; utilizza spesso i dpcm al posto dei decreti legge; e comunica direttamente con il popolo di Facebook, solo ultimamente rispondendo a qualche domanda. Ma il suo, con tutta evidenza, è soprattutto un decisionismo “dubbio”. Ambiguo. Furbesco. Non solo per quanto riguarda l’efficacia, ma anche per tutto ciò che attiene la trasparenza. In questo è nuovo. Nel decisionismo di Conte, infatti, la responsabilità è sempre altrove. È nei governatori regionali, che spesso dispongono diversamente da come previsto a Palazzo Chigi, ma che di recente sono stati legittimati proprio dal premier a rendere ancora più stringenti i divieti.
È nei comitati scientifici nazionali, sempre più pletorici (74 membri quello per la scelta dell’App antivirus). È nei commissari speciali: ultimo, in ordine di nomina, Vittorio Colao, messo dal governo a capo di una task force di 17 esperti. È nella burocrazia, a cui viene però delegata la scrittura di decreti con oltre 123mila parole, cioè tredici volte quelle della Costituzione. È nei meccanismi e negli organismi europei, ormai sempre più spesso criticati con gli stessi argomenti della polemica sovranista. Ed è, infine, nell’opposizione, in modo particolare in Salvini e Meloni, addirittura pubblicamente condannati nel corso di una diretta televisiva istituzionale.
Tutto questo dopo che il premier ha escluso a priori la possibilità di assumersi per intero la responsabilità di questa crisi. Cosa che avrebbe potuto fare sia appellandosi all’articolo 120 della Costituzione (“Il governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso… di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica… prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”) sia alla lettera “q” dell’articolo 117 (“Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:…dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale”). “Lettera q come quaquaraqa”, ha sottolineato a questo proposito – forse troppo polemicamente – Giulio Tremonti.
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