Una proposta per la ministra Cartabia. Vuole attuare una vera rivoluzione delle carceri in modo che ogni giorno e ogni ora e ogni minuto la bussola di chi gestisce gli istituti di pena sia sempre e solo l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione? Sostituisca al vertice del Dap i magistrati Dino Petralia e Roberto Tartaglia con due veri “carcerieri riformatori” quali l’ex e l’attuale direttore di San Vittore, Luigi Pagano e Giacinto Siciliano. Mettiamo per un attimo da parte i “piemme antimafia” con l’ossessione della sicurezza e lasciamo spazio al direttore che inventò il “carcere normale” di Bollate e a quello che seppe aiutare, nel reparto di massima sicurezza di Opera, i mafiosi assassini a ricostruire in altro modo la propria vita. Nessuno può garantire che con questa, che sarebbe certamente una vera rivoluzione copernicana, non ci sarebbe più alcuna forma di ribellione e protesta nelle prigioni, ma le carceri diventerebbero altra cosa rispetto all’esistente. Certamente sarebbero più sicure, questo possiamo garantirlo.

L’avevamo detto dal primo giorno alla ministra Cartabia. Per applicare l’articolo 27 della Costituzione occorre innanzi tutto sottrarre il carcere all’ossessione securitaria della lunga trafila di “piemme antimafia” che lo hanno diretto e governato nel corso degli anni. E che ancora continuano. Forse le prigioni dovrebbero essere proprio luoghi separati e autonomi dalla giurisdizione e dal processo, dovrebbero/potrebbero essere la casa dove “il detenuto non è il suo reato e nemmeno la sua sentenza”. La normalità di una vita in cui la privazione della libertà sia l’ unica forma di pena. Dove gli agenti di custodia fossero addetti appunto a custodire e non a odiare e farsi odiare in quel corpo a corpo di una quotidianità che porta al conflitto, e poi alle rivolte e infine alle spedizioni punitive. Quella normalità in cui la cella è solo il luogo in cui si va a dormire, non quello in cui si vive. E allora diventerebbe persino quasi secondario il numero di centimetri quadri per ogni persona, come previsto dalle regole europee che hanno ripetutamente condannato lo Stato italiano per la promiscuità e il sovraffollamento delle sue prigioni.

Le prigioni non sono cose per magistrati. Intanto perché le toghe non conoscono il carcere, anche se ogni tanto qualche parlamentare burlone ne propone l’assaggio di qualche giorno per accedere al concorso. Al massimo un pubblico ministero conosce la sala interrogatori e l’ufficio matricole. E poi perché, soprattutto coloro che provengono dall’Antimafia, sono ossessionati dal problema della sicurezza. Una dimostrazione palese l’abbiamo vista un anno fa, con l’allarme covid. Essere dominati dal problema della sicurezza vuol dire prima di tutto ridurre il ruolo degli agenti di polizia penitenziaria ai “secondini” ottocenteschi e i detenuti a perenni ribelli. E anche, come ha ricordato Alberto Cisterna, a sollecitare e privilegiare la confessione e la delazione, al contrario di quel percorso di revisione della propria vita e dei propri atti che, in un clima di rispetto della dignità e integrità della persona, porti a un reale cambiamento. Lo dicono gli stessi dati ministeriali sulla recidiva, che si limita al 20% nel caso di reclusi che abbiano partecipato al programma di rieducazione all’interno del carcere, ma diventa dell’80% se il prigioniero è stato tenuto come un animale in cattività.

Un altro piccolo suggerimento alla ministra, la lettura di poche pagine scritte da un ex “piemme antimafia”, Alfonso Sabella, nella prefazione al libro di Gigi Pagano Il direttore. Sono parole sincere di un ex magistrato della Dda siciliana, che arrivava al Dap con Giancarlo Caselli mentre aveva ancora negli occhi l’orrore delle stragi che avevano ucciso Falcone e Borsellino. E che, benché da ragazzo avesse manifestato per il referendum che voleva abolire l’ergastolo, si era poi iscritto al clan di quelli che volevano buttare la chiave. Racconta il suo incontro con Gigi Pagano proprio nei giorni in cui si stava per aprire quell’esperienza straordinaria di Bollate, quella che il procuratore Gratteri ha definito “uno spot”. È la storia di un’amicizia, ma anche molto di più. Ecco Sabella prima versione, mentre va a visitare con Pagano la struttura di Bollate prima dell’apertura. Il magistrato è visibilmente contrariato, e riflette: «Ma come c… si fa a progettare una struttura penitenziaria senza garitte e camminamenti per le sentinelle, con tutti questi campi sportivi, con tutti questi laboratori ed edifici scolastici, con i detenuti liberi di muoversi in quegli enormi spazi non controllabili adeguatamente senza migliaia di agenti; soldi buttati». Quanti sono i magistrati, come appunto Gratteri, che la pensano così?

È vero che al vertice del Dap ci sono anche stati giudici illuminati e riformatori come Alessandro Margara e Santi Consolo, e anche persone per bene come Michele Coiro e altri, ma la mentalità di chi indossa la toga, sia che indaghi sia che giudichi rimane sempre quella di legare il detenuto al suo processo e alla sua sentenza. Ma ecco il nuovo Alfonso Sabella, ex “piemme antimafia”: «Le carceri non sono solo i detenuti al 41 bis… Le carceri sono migliaia e migliaia di esseri umani che richiedono attenzione, su cui occorre investire, che è necessario provare a sottrarre alla loro stessa devianza: quel carcere di Bollate che io avevo disprezzato in vent’anni di onorato servizio ha ridato alla collettività, e con gli interessi, il denaro speso per costruirle e mantenerlo». Quell’esperienza fu per il magistrato un «vero punto di svolta»: «pur mantenendo le mie convinzioni, iniziavo finalmente a capire che la logica securitaria fine a se stessa non porta a nulla di positivo per il Paese e che occorreva un grande progetto penitenziario, una vera rivoluzione nel sistema carceri, per dar vita a un’Amministrazione che…provasse seriamente a dare piena applicazione a quell’articolo 27 comma 3 della nostra Costituzione…».

Chissà se è stato per via di queste parole che la domanda del dottor Sabella (oggi giudice a Napoli) a dirigere il Dap non è stata neppure presa in considerazione dal ministro Bonafede, secondo quanto lui stesso ha dichiarato un anno fa mentre erano in corso le polemiche sulla nomina di Basentini e il mancato incarico a Nino Di Matteo. Quel che è certo è che questo ex “piemme antimafia” ha trovato una buona scuola in un semplice direttore di carcere. Un buon esempio. Ecco perché, signora guardasigilli, lei dovrebbe, con il garbo che le è proprio, rimuovere dal vertice del Dap i due magistrati e sostituirli con due veri “carcerieri riformatori” quali l’ex e l’attuale direttore di San Vittore, Luigi Pagano e Giacinto Siciliano.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.