Ci sono due campi che la ministra Marta Cartabia dovrà attraversare in tempi rapidi. Ma prima dovrà sminarli. Il primo riguarda le carceri (che toccano la sua sensibilità) e chi le governa, cioè il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). L’altro è il luogo stesso in cui la Guardasigilli ora dimora, cioè il complesso di via Arenula a Roma dove è la sede del Ministero e che pare un Palazzo di giustizia più che il luogo del governo, tante sono le toghe che vi pullulano indisturbate e riverite.

Se Marta Cartabia non vorrà o non riuscirà a disinnescare le mine sepolte in profondità in questi due campi, sarà sempre un ministro dimezzato, se le va bene, oppure il solito non-ministro nelle mani delle toghe, cui siamo da troppo tempo abituati. Sarà colei che scriverà in bella copia quel che i magistrati del ministero le avranno passato (neanche troppo sottobanco). E, per quel che riguarda il carcere, forse riuscirà a far vaccinare in tempi non troppo lunghi un po’ di personale, di agenti penitenziari e di detenuti, ma i vertici del Dap la ridurranno a una specie di assistente sociale.
Marta Cartabia ha una spina dorsale d’acciaio e la forza tranquilla di chi non solo ha studiato, ma ha saputo mettere a frutto le proprie competenze. Lo ha dimostrato alla presidenza della Corte Costituzionale con alcune iniziative rivoluzionarie, come le visite nelle prigioni e la sentenza che ha spezzato le reni alla cultura del pentitismo come unica uscita di sicurezza dal carcere ostativo.

Ha mostrato una certa capacità di navigazione politica quando è riuscita ad aggirare e rinviare il problema di riformare la legge di Bonafede sulla prescrizione, facendo votare all’unanimità un ordine del giorno che contiene due punti molto chiari: il processo non può essere eterno e la funzione del carcere deve essere di recupero e rieducazione del detenuto. Due punti fermi della nostra Costituzione, gli articoli 27 e 111, quelli che non piacciono ai giacobini e a quelli del “buttare via la chiave” della cella. Un segnale dei suoi primi giorni di governo resta per noi garantisti un punto luminoso. Non è mai capitato di vedere un ministro di giustizia che dedica la sua prima visita non a qualche carceriere ma a colui che sta per definizione dalla parte dei diritti del soggetto debole, cioè il Garante dei detenuti.

Mauro Palma è stato il primo a riceverla, il 19 febbraio, e i due insieme avevano posto le basi per una continua collaborazione che possa dare una svolta alla politica sulle carceri. Ma ecco che si presenta adesso il campo minato. La ministra è andata al Dap solo il 2 marzo, due settimane dopo l’incontro con il Garante. E lì ha trovato il capo Dino Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia, i due magistrati subentrati meno di un anno fa a Franco Basentini, fucilato per una insensata campagna di magistratura e di stampa contro le “scarcerazioni facili” di boss mafiosi in occasione della prima fase dell’epidemia. Ora, è impossibile che la ministra non abbia seguito, quanto meno sui giornali (e se non è così ci penserà la sua eccellente responsabile comunicazione Raffaella Calandra) l’imbroglio di quella campagna stampa. Prima di tutto non era stato scarcerato nessuno, ma alcuni giudici e tribunali di sorveglianza avevano applicato una serie di differimenti di pena.

Secondariamente, di detenuti al regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, solo tre erano andati in provvisoria detenzione domiciliare. Si trattava di persone gravemente malate, due delle quali vicine al fine pena. Infatti Pasquale Zagaria, quello su cui si erano particolarmente accaniti i laudatores del “fine pena mai”, affetto da gravissima neoplasia, è già libero e Francesco Bonura, gravemente malato, sta per seguirne la sorte, avendo scontato la pena per intero. Quanto al terzo, Vincenzino Iannazzo, ha subito un trapianto di reni e pare abbia gravi problemi cognitivi, come denunciato dalla sua famiglia e dall’associazione Yairaha. Ora è a Parma in regime di 41bis. Ci sembra un caso di cui la ministra, insieme al garante, potrebbe occuparsi da subito. Sono certa che ambedue lo faranno.

Ma ci sono le mine. Il presidente del consiglio Mario Draghi ha saputo dissodare il terreno, con qualche cambiamento di vertice, trovando mani sicure cui affidare la nostra salute, in definitiva la nostra sorte. Le mine disseminate nei campi di competenza del ministro Cartabia, e che impediscono di trattare la questione-carcere rendendo concreto ed effettivo il significato dell’articolo 27 della Costituzione, sono le toghe. Due magistrati al vertice del Dap, selezionati appositamente, secondo quanto scritto da tutti i quotidiani dopo le dimissioni di Basentini, per dare una risposta politica alle presunte “scarcerazioni dei boss”. Che cosa di meglio quindi, di due toghe “antimafia”, per dare del carcere e dei detenuti un’immagine di perenne emergenza? Cioè il contrario di quanto previsto dalla Costituzione?

È proprio questa la prima mina da rimuovere, il clima da leggi speciali che ci perseguita fin dai tempi del terrorismo, passando poi per i reati legati alla mafia per arrivare fino alla legge detta “spazzacorrotti” contro gli imputati dei reati contro la pubblica amministrazione, quella del ministro Bonafede e dei suoi ispiratori. Non è possibile che due magistrati “antimafia” dirigano le carceri. Niente di personale (come si suol dire), ma la materia è delicata e delicate devono essere le impronte di chi la maneggia. E poi, perché sempre magistrati? Mi vengono in mente alcuni nomi (che non faccio per non mettere nessuno in imbarazzo) di bravissimi direttori (o ex) di istituti di pena o provveditori regionali che non solo sono esperti perché con i detenuti hanno a che fare tutti i giorni, ma che possiedono anche quella rara sensibilità che entrerebbe subito in sintonia con quella della ministra Cartabia, quella di chi sa che la pena non debba necessariamente sempre consistere nella perdita della libertà. Perché la detenzione dovrebbe essere proprio e solo l’ultima spiaggia, non solo per chi è in attesa di processo, ma anche dopo la condanna.

Cambiare i vertici del Dap sarebbe un bel segnale, tra l’altro in sintonia con l’impronta rinnovatrice già data dal presidente Draghi. Ma c’è un altro problema, quello dell’occupazione manu militari dei magistrati nel ministero di via Arenula. Il Csm sforna a getto continuo autorizzazioni alle toghe a mettersi fuori ruolo, alla faccia della divisione dei poteri, così ci sono alcuni che rivestono i tre ruoli: un po’ giudicano, un po’ legiferano e un po’ governano. Se qualcuno pensa che il fenomeno non produca conseguenze politiche, e quindi per la vita di tutti noi, si sbaglia.

Basterebbe ricordare, andando molto all’indietro (come ha fatto proprio ieri Francesco Damato sul Dubbio) che cosa successe nel 1988, un anno dopo il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che li aveva castigati dopo il “caso Tortora”. Guardasigilli del governo Goria era un giurista di quelli di cui non c’è di meglio, Giuliano Vassalli. Il più garantista di tutti fece una legge inutile e opposta a quel che aveva imposto la volontà popolare. Sempre senza fare nomi né attacchi personali, vedo però dal sito del Ministero che, per esempio, nell’ufficio legislativo sia il capo che la vice sono due magistrati. Non sarebbe ora di sminare un po’ e di cambiare regime anche lì?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.