Le riforme dimenticate dal Parlamento
Diritti dimenticati, le associazioni dettano la loro agenda alla politica
“Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?” La supercazzola del conte Mascetti al vigile che sta lì lì per spiccare una multa in “Amici miei”, com’è noto, si adatta a diverse situazioni in cui si voglia stordire il proprio interlocutore, che sia l’amante tradita, il prete al capezzale, l’usciere d’albergo che non permette l’ingresso. È uno strumento malleabile e sempre valido, che ben si è adattato anche alle risposte che il Parlamento ha riservato alle vicende dei diritti nella legislatura che si appresta a concludersi. Il bilancio con cui si chiude è una disfatta assoluta. Non c’è stato alcun passo in avanti su cannabis, matrimonio egualitario, ius scholae, eutanasia, immigrazione, ambiente, salario minimo, partite Iva. Eppure le associazioni protagoniste della mobilitazione popolare intorno a questi temi si contano a decine.
Meglio Legale, Associazione Luca Coscioni, Open Arms Italia, Italiani senza cittadinanza, Circolo Mario Mieli, A Buon Diritto, Gaynet Italia, Libera di abortire sono le prime che vengono in mente. Dietro ciascuna di queste sigle, per chi abbia seguito anche da lontano il corso della politica più recente, spunta fuori un’istanza, dietro ogni istanza un segmento sociale, dietro ogni segmento sociale un diritto rivendicato. Saranno in fondo questioni di piccolo conto, quelle trattate, o forse non aggregano poi chissà quanta parte della società o, ancora, queste organizzazioni non avranno ottenuto i consensi sperati? Insomma, non sarà che hanno fallito? Al contrario. I referendum proposti sui diritti hanno sempre raggiunto in pochi giorni i numeri necessari, e in pochi altri li hanno raddoppiati, le leggi di iniziativa popolare hanno sempre coinvolto centinaia di sostenitori, gli appelli hanno sempre raccolto firme su firme e le manifestazioni di piazza hanno sempre registrato un alto numero di partecipanti. E allora?
Allora “Antani, come se fosse antani, anche per il direttore, la supercazzola con scappellamento”. Oppure, variazione sul tema: “L’attenzione alle proposte di legge di iniziativa popolare sarà massima, perché sono convinto si tratti di strumenti particolarmente utili per tenere saldo il rapporto fra cittadini e istituzioni” (dichiarazione rilasciata da Roberto Fico, Presidente della Camera dei Deputati, all’inizio dell’ancora attuale legislatura). Ma tutte le proposte firmate dai cittadini sono fallite, anzi, nessuna legge di iniziativa popolare è neanche arrivata alla discussione in aula. Che fare? Quelle decine di organizzazioni hanno convocato un’assemblea pubblica, giovedì 28 luglio al Monk di Roma. È solo il primo appuntamento di una serie dal titolo di ostinata e deliberata ingenuità: “Che fine fanno i diritti?”. Dopo cinque anni di dialoghi con le istituzioni quelle organizzazioni, e i loro sostenitori, si ritrovano al punto di partenza. L’assemblea convocata, come si legge sull’invito a parteciparvi diramato da Meglio Legale, vuol essere allora l’occasione per discutere insieme sugli strumenti utili perché “la prossima legislatura esca dal solco di questo intollerabile stallo”. E quegli strumenti sono almeno tre.
L’obbligo di discussione delle leggi di iniziativa popolare perché non si ripeta l’eterno rimandarne la calendarizzazione, l’introduzione della firma digitale per incentivare la partecipazione popolare al processo democratico e l’adozione del referendum propositivo al fianco di quello abrogativo. Tre strumenti che uniscono associazioni, cittadini e militanti che si occupano di temi diversi ma che cercano congiuntamente di allargare le possibilità di incidere sulle decisioni politiche anche dall’esterno del Parlamento. Con lo scenario che si prospetta per le prossime elezioni, non occorre lambiccarsi in raffinate analisi sondaggistiche per concordare che forse l’unico modo di non cedere terreno alla supercazzola epocale è quello di irrobustire le fila di questo primo incontro, e di quelli che seguiranno.
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