L’implosione del Movimento Cinque Stelle, per quanto in parte causato da ragioni endogene frutto della estemporaneità e della debolezza culturale del progetto, è, per altra parte, un ulteriore tassello della riorganizzazione, allo stato ancora molto embrionale, del sistema dei partiti causato dall’irreversibile declino della Seconda Repubblica e dalla nascita del governo Draghi. La crisi del sistema dei partiti e l’agenda “nazionale” e bipartisan del premier ripropongono con forza la questione non solo delle forme della politica, ma soprattutto delle culture politiche.

Proprio da questo punto di vista, se la crisi dei grillini appare ampiamente autoreferenziale e asfittica sul piano degli ideali, torna con forza la questione della fondazione di un nuovo bipolarismo che sia centripeto e basato su identità coerenti in luogo di uno fondato, come ancora oggi, su motivi di antitesi (la paura o la ripulsa che gli altri vadano al governo). L’alleanza M5S-Partito democratico, tutt’altro che irresistibile nelle rilevazioni e nelle prime prove, viene sperimentata in pratica solo nelle elezioni napoletane, e il Riformista è stato lesto nell’indicarne l’effettiva sostanza di un patto sottoscritto con un uomo politico popolare, diciamo pure un leader, in cerca di partito. Il patto per Napoli è il precipitato locale della matassa indecifrabile che è divenuta l’alleanza nazionale: un partito come il Pd, molto debole in città a differenza che in provincia, si allea, convergendo sul nome di Gaetano Manfredi, con un Giuseppe Conte sconfessato dal fondatore del M5S e un Roberto Speranza sbeffeggiato quotidianamente da principale “democrat” campano Vincenzo De Luca.

Sull’evidente crisi di questo asse strategico, sul piano nazionale Carlo Calenda e sul piano cittadino Marcello Tortora rivolgono un forte appello al Pd a lasciare il mondo dei pentastellati alle loro beghe e a farsi promotori dell’unione dei riformisti, in un fonte ampio comprendente soggetti come i movimenti di Marco Bentivogli e Enrico Giovannini, Azione, Italia Viva, +Europa e così via. Ci sarebbe molto da discutere sull’espressione. Ma il portato delle parole di Calenda è chiaro: il campo largo non può comprendere insieme il centro liberal-riformista e Grillo o anche solo Conte, che, peraltro, ha bisogno di molto tempo per strutturare un soggetto politico. Bisogna scegliere, non sulla base di sondaggi ma di un progetto politico e identitario.

La proposta di Calenda è destinata a cadere nel vuoto se a essa si replica stancamente con il “campo largo”. Diversamente impone una sfida di ampia portata, che include una riflessione franca e non tattica sul ruolo di Draghi e sull’appuntamento del Quirinale. Enrico Letta non è Nicola Zingaretti e avrebbe tutto il background e la costellazione valoriale per considerare con attenzione la proposta di Calenda, perchè per l’attuale segretario Pd il campo largo è una necessità imposta dai numeri più che un’opzione politica e strategica. Ma il campo largo è diventato un campo minato e, forse, un camposanto di ambizioni. Il moltiplicarsi di schegge fuoriuscite dal M5S, e in prospettiva Conte, costituiscono una grave sfida per un Pd da anni in crisi di consensi, che si può affrontare solo cambiando schema di gioco.

Il gioco dei grillini, divisi in tutto, è comune nel moltiplicare l’offerta politica per essere rieletti a spese dei vicini. Il partito di Conte potrebbe far calare di vari punti il Pd e l’ampio elettorato ex-M5S potrebbe dare credito a propositi di rilancio, di ritorno alle origini et similia. Bisogna marcare, allora, la differenza e soprattutto indicare una prospettiva di governo agli italiani. Differenziarsi dalla destra è giusto, ma non per mettere su un’armata Brancaleone quanto un progetto politico. L’agenda Draghi, integrata con uno più spiccato orientamento di sinistra, sarebbe un’ottima base di partenza.