Non c’è competizione politica senza che vi sia una qualche “identità” nelle forze che gareggiano fra loro. Ma, come si sa, governare è diverso dal fare semplicemente campagna elettorale: questa sorta di contraddizione è intrinseca al governo rappresentativo (vulgo, democrazia, diceva Norberto Bobbio), il quale rende gli attori politici responsabili dinanzi al giudizio del corpo elettorale. Dunque, per vincere le elezioni bisognerà avere una identità, fatta nella maggior parte dei casi più di slogan e di leader che di programmi (che d’altronde quasi nessuno legge). Perché la competizione democratica è sì una battaglia incruenta: che si fa però sotto bandiere sulla quali è scritto “in hoc signo vinces”.

Il vincitore, però, una volta al governo (e magari prima), si rende conto che non ci sono i mezzi per realizzare integralmente le promesse fatte, le quali sono sempre più parte dell’“identità” – perché non basta ormai da tempo promettere il sol dell’avvenire per fidelizzare gli elettori della vecchia sinistra, o affidarsi alla trinità di valori Dio, patria, famiglia per tenersi legati quelli di destra. La pacchia dei trenta gloriosi è finita per chiunque acceda al governo del paese Italia. Ci vuole responsabilità e moderazione e intese con i paesi dell’Unione europea di cui l’Italia ha disperato bisogno. L’identità si coltiva allora con polemiche – in realtà inutili -contro il fascismo della destra o l’antifascismo della sinistra. Ma contano poi i conti pubblici, l’inflazione, la produttività del lavoro, la collocazione dell’Italia nel quadro delle alleanze internazionali, il numero dei disoccupati e il divario economico fra il Nord e il Sud della nazione, l’arretratezza culturale della cittadinanza – tutti problemi enormi che deve affrontare qualsiasi governo. E tanto meglio se ammainano le bandiere della vittoria nell’interesse del paese invece di fare del patriottismo di fazione. Anche a rischio di una moderata impopolarità.

In questa battaglia oggi esiste in Italia un vantaggio evidente per la metà circa del paese che ha portato Giorgia Meloni, per meriti suoi, a Palazzo Chigi, dove verosimilmente resterà fino a un cambio per ora non prevedibile dello status quo. Si è ripetuto spesso che l’origine della vittoria (e della conseguente supremazia attuale) del centrodestra sta anche nel fatto che i partiti che si oppongono alla destra non sono stati in grado di realizzare una alleanza fra di loro per contrastare l’altra metà dell’offerta politica, pur in presenza di un sistema elettorale che incentiva fortemente a formare coalizioni e a ridurre lo scontro a una competizione bipolare. La difficoltà del centrosinistra a coalizzarsi e, di converso, la relativamente maggiore facilità del centrodestra a farlo, dipendono anche in buona parte dalle diverse caratteristiche dei loro rispettivi elettorati che giocano un peso notevole.

Al di là della frammentazione partitica che ha comunque resistito alle leggi non proporzionali che si sono succedute negli ultimi trenta anni, sembra abbastanza chiaro infatti che gli elettori degli odierni tre partiti di destra sono più vicini fra di loro che quelli dell’altra metà del cielo. Inoltre, il Pd che a lungo è stato l’asse portante del centrosinistra italiano, oggi non solo vede alla sua destra (per usare una categorizzazione tradizionale) delle forze moderate, quelle del cosiddetto Terzo polo, ma anche ormai alla sua sinistra il partito di Conte, che ha assorbito i delusi del grillismo che erano in parte delusi del Pd (gli altri delusi hanno votato a destra). Vedremo cosa succederà con la segreteria Schlein, ma per ora è facile constatare che gli elettori di queste diverse forze politiche sono assai poco omogenei fra loro. Alla luce di questa constatazione, non è sorprendente che una alleanza fra di loro non si sia realizzata alle elezioni politiche: per la semplice ragione che la formazione di una coalizione, anche in mancanza di un vero leader, avrebbe tolto voti alle sue componenti.

Basti pensare, tra gli altri, al tema decisivo per il nostro paese della politica estera dove oggi importanti sono le differenze fra i tre segmenti della non-destra. Non vale peraltro l’obiezione che anche a destra sulla politica estera e in particolare sul conflitto in Ucraina non si può certo parlare di omogeneità di posizioni fra FdI, Lega e Berlusconi. Perché occorre sottolineare che questi tre stanno al governo e non all’opposizione e hanno interesse a restarci, mentre gli altri lottano per la conquista dell’egemonia o comunque del potere coalizionale dentro l’eventuale ipotetica alleanza. Inoltre, la forza di Meloni obbliga gli altri a più miti propositi e, nonostante le strambate di qualcuno, ad allinearsi sul primo ministro, che, se vogliono restare nei palazzi, non possono sfidare.

Peraltro, lo stesso Pd è ormai un insieme di forze diverse che vanno dai cattolici riformisti ai vecchi della “ditta” che stanno rientrando nella vecchia sede. Cambierà tutto con il nuovo segretario, che ridarà al partito l’”identità” cui abbiamo fatto cenno più sopra? Molti se lo aspettano e alcuni se lo augurano. Ma non sarà facile governare un partito siffatto. Anche perché, come si sa e come tutte le analisi al riguardo hanno dimostrato, Schlein deve la sua elezione al consistente apporto di voti di non iscritti, provenienti per lo più da elettori che nelle ultime consultazioni avevano scelto forze “a sinistra” del partito, come Sinistra Italiana o M5s.

Al primo turno delle primarie, riservato ai soli iscritti, questi ultimi hanno votato “contro” la Schlein, preferendole una figura più moderata come Bonaccini. Ed è facile capire che la nuova segretaria dovrà tentare di mantenere il consenso della consistente quota di iscritti, molti dei quali sono, come si è visto, su posizioni spesso più moderate delle sue e, al tempo stesso, non perdere il supporto della cospicua pattuglia di nuovi elettori conquistati con la sua nomina e che hanno già contribuito a fare crescere significativamente il Pd nei sondaggi. Al riguardo va ricordato però che, proprio per il fatto di provenire da altri partiti, questa ultima quota di elettorato è intrinsecamente più “mobile”, pronta, senza le esitazioni che caratterizzerebbero invece gli iscritti, a “tradire” nuovamente il Pd.

Ancora, tra i problemi del neo segretario, va considerato il ruolo, per ora non abdicato, di quella parte dell’apparato tradizionale del partito (ad esempio di Franceschini) che pure ha supportato Schlein, ma che vorrà molto probabilmente mantenere il proprio potere nello stabilire la linea. Insomma, si tratta di una situazione complessa e variegata: non a caso la prima ambizione che Schlein ha espresso dopo la sua elezione è stata quella di mantenere l’unità nel partito. Insomma, tenere insieme tutti gli elettori non di destra, alleanza necessaria al centrosinistra per provare a prevalere, sembra una fatica di Ercole.

Tra coloro che sono favorevoli ad una sinistra di governo e quelli che per tradizione storica e per atteggiamento sono per la testimonianza e per l’opposizione c’è una distanza maggiore che fra i fratelli di Giorgia, che a destra stanno ormai in tutti i partiti. La sinistra si può per ora consolare o illudere con l’imprevedibilità del comportamento elettorale degli italiani ormai mobili come piuma al vento.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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