Gli incontri della premier
Europa e Vaticano, Meloni incassa il disgelo in cambio del guinzaglio ai populisti

Il successo o meno delle iniziative diplomatiche non si misura sui risultati concreti e immediati. L’obiettivo non è concludere ma creare le condizioni perché alle conclusioni si possa poi arrivare. I risultati dell’offensiva diplomatica scatenata in due giorni da Giorgia Meloni, l’incontro a Roma con Ursula von der Leyen e meno di 24 ore dopo quello con il pontefice in Vaticano, vanno valutati con questo metro. Per la premier, nonostante l’espressione di papa Francesco non sembrasse affatto lieta, si è trattato di un sostanzioso passo avanti sulla strada impervia della legittimazione come leader pienamente affidabile della destra europea. La soddisfazione di palazzo Chigi è del tutto giustificata.
La presidente del Consiglio e quella della Commissione europea avevano entrambe ottimi motivi, politici e personali, per sciogliere a colpi di sorrisi e cineserie il gelo che si era creato nello scorso novembre, intorno al caso della Ocean Viking. Come leader politica Giorgia Meloni ha bisogno del visto di Bruxelles per strapparsi di dosso i panni soffocanti della populista con venature orbace, bandita dai salotti buoni e dalle stanze dei bottoni. Come premier non può neppure sperare di uscire a vele spiegate dalla tempesta della crisi senza una piena disponibilità della Ue. Per von der Leyen valgono ragionamenti affini. Sul piano personale le serve l’appoggio di quella che è oggi la più importante leader dei conservatori europei per essere rieletta nel 2024. Come presidente della Commissione è consapevole del ruolo che l’italiana ha svolto e svolge nel tenere a freno sul fronte della guerra in Ucraina la fronda interna alla sua maggioranza e non le sfugge l’effetto domino che si determinerebbe se l’Italia dovesse fare anche solo mezzo passo indietro negli aiuti militari a Kiev.
Il colloquio in Vaticano del giorno dopo, non del tutto rituale e segnato da una ostentata cordialità, per Giorgia era se possibile ancora più importante. Le critiche severe del papa alla politica dell’immigrazione di un governo che si proclama cattolicissimo sono una spina nel fianco. L’apertura di credito segnata dal ricevimento è un risultato prezioso. Certo, papa Francesco ha trovato modo di dar voce al suo dissenso dalle politiche del governo senza bisogno di parlare apertamente, regalando quel bronzo intitolato “Amore sociale” e corredato dalla scritta “Amare aiutare”. Al quadretto edificante di un bambino che aiuta un coetaneo a rialzarsi mancavano solo un paio di navi Ong sullo sfondo ma era come se ci fossero. Però papa Francesco si è limitato a questo e nella situazione data per l’inquilina di palazzo Chigi l’incasso è palese. E’ probabile del resto che lo stesso pontefice, oltre all’interesse nell’alleanza con la leader di una destra e di un governo che sa essergli ostili, non disperi nella possibilità di guidare e spingere la premier su posizioni meno truculente e comunque diverse da quelle di Salvini.
La chiave del disgelo diplomatico nei confronti della “underdog” da parte della Ue, del Vaticano e anche dello stesso establishment italiano in fondo è proprio questa ed è sempre la stessa. E’ la scommessa su una leader emergente e in rapida ascesa a livello europeo che chiede piena legittimazione promettendo in cambio di tenere a bada e imbrigliare proprio quelle pulsioni che giustificano i fortissimi sospetti e la tendenziale ostilità dell’establishment nei confronti della sua maggioranza: l’ambiguità, vera o presunta, sul fronte della guerra, la minaccia per la tenuta rigorista dei conti pubblici. Non è una apertura di credito concessa in bianco. La premier se la è conquistata spostando la destra e il governo sulle posizioni più radicalmente atlantiste che ci siano oggi nella Ue e mettendo la difesa dei conti pubblici al di sopra di ogni altra esigenza, persino più di quanto avrebbe fatto al suo posto Draghi. Ma non è neppure un credito illimitato: per mantenerlo e consolidarlo Giorgia dovrà dimostrare ogni giorno di saper controllare, domare e piegare la sua maggioranza. Un compito che col passare del tempo e col mutare del contesto potrebbe rivelarsi molto meno facile di quanto non sia stato in questi primissimi mesi di governo.
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