Berlusconi torna in Parlamento. Si riprende il seggio in Senato che gli venne strappato con un atto di inaudita sopraffazione da una legge folle (la Severino, che ancora danneggia il sistema politico-giudiziario, e speriamo che il nuovo governo troverà il modo per abolire) e da un voto parlamentare accanito e intollerante, che violò lo stato di diritto accettando la retroattività della legge, in spregio della Costituzione e di ogni forma di scienza o di norma giuridica civile.

Fu cacciato dal Senato, otto anni fa, perché era stato condannato per frode fiscale, e la legge Severino prevedeva l’ineleggibilità dei condannati a più di due anni di prigione. Il problema che era sul tappeto (a parte la discutibilissima sentenza di condanna che ancora oggi pende davanti alla Corte di giustizia europea) era sui tempi: la legge Severino era stata approvata nel 2012 e i fatti per i quali Berlusconi era stato condannato erano di una decina di anni prima (l’evasione fiscale non era sua, peraltro, ma di Fininvest, ed era stata realizzata in un momento nel quale Berlusconi non aveva nessuna carica in Fininvest).

La Costituzione, gli studenti lo sanno, prevede che nessuno può essere punito per una legge che non è in vigore al momento del reato. Gli studenti lo sanno, i senatori della maggioranza non lo sapevano. E dunque oggi dovrebbero essere tutti lieti, a prescindere dagli schieramenti ai quali si appartiene, del fatto che questa ferita è stata sanata. Fu una ferita molto grave. Certamente subita da Berlusconi e dal suo partito (che da quel momento iniziò una forte discesa sul piano dei voti), ma subita anche dalla democrazia italiana. L’espulsione dal Parlamento del capo dell’opposizione è – non solo sul piano simbolico – un colpo mortale all’immagine di un sistema democratico. Vinse l’arroganza. Sul buonsenso e sulla civiltà politica.

Ho l’impressione che su un piano diverso stia vincendo di nuovo l’arroganza, mentre si procede all’elezione dei presidenti delle Camere. La maggioranza ha deciso di assegnare tutte e due le presidenze (Camera e Senato) ad esponenti della stessa maggioranza. Come, in realtà succede da quasi trent’anni (trent’anni di arroganza esercitata indifferentemente da destra e da sinistra). Io faccio questo ragionamento:
1) Stiamo per affrontare un periodo difficilissimo di crisi economica e, di conseguenza, anche di crisi politica, che esige saggezza, difesa degli interessi collettivi, limitazione della conflittualità strumentale.
2) Il centrodestra ha stravinto le elezioni aggiudicandosi poco meno dei due terzi dei seggi in Parlamento, e di conseguenza non avrà difficoltà a governare. Può anche permettersi dei lussi.
3) La ragione essenziale della larghissima vittoria del centrodestra sta nei meccanismi della legge elettorale, che premiano in modo fortissimo le capacità di alleanze dei partiti. Così, ragionando in termini di voti ( e dunque di rappresentatività del Paese) il centrodestra ha ottenuto il 42,8 per cento dei voti espressi, mentre i partiti che sono all’opposizione, messi insieme, hanno ottenuto il 50 per cento dei voti. Questo risultato, mediato dalla legge elettorale, ha permesso al centrodestra di conquistare alla camera 235 seggi, cioè molto di più dei 201 necessari per governare, mentre la somma di tutti i seggi di opposizione fa 152. La conseguenza è che il centrodestra è legittimato largamente a governare ma deve essere consapevole che non rappresenta la maggioranza degli italiani, bensì una forte minoranza.

È per l’insieme di queste ragioni che sarebbe stato un gesto molto importante, leale, giusto, di apertura, chiedere all’opposizione di eleggere il presidente di una delle due Camere. La storia ci dice che la concessione all’opposizione di una delle due presidenze è un gesto di grande democrazia che non avviene più dal 1994. In quell’anno, dopo le elezioni vinte un po’ a sorpresa e in modo clamoroso dalla nascente Forza Italia di Berlusconi (alleata con l’Msi di Fini e con la Lega di Bossi), il centrodestra decise di tenere per sé le presidenze di tutte e due le Camere. A Montecitorio impose una ragazzina, che credo all’epoca non avesse neppure trent’anni, Irene Pivetti. Fu un gesto di sfida “pre grillino” alla vecchia politica, quella dei soloni, dei Moro, dei Fanfani, dei Craxi, degli Occhetto e di Nilde Jotti. Bossi voleva dire: non servono i giganti e le cariatidi, basta una ragazza qualsiasi per presiedere la Camera…

Al Senato invece non c’era maggioranza. I due schieramenti erano alla pari. Fu sfida all’ultimo voto tra il prestigiosissimo Spadolini e l’emergente Carlo Scognamiglio, candidato da Forza Italia. Alla fine un senatore decise di passare dal centrosinistra al centrodestra e la bilancia si inclinò verso per Scognamiglio. Da allora basta fair play. Anche nei primi anni della Repubblica, le Presidenze delle Camere erano appannaggio della maggioranza radunata attorno alla Democrazia Cristiana. Poi nel 1976 ci fu la svolta, voluta da Aldo Moro all’indomani dei grandi scontri tra Dc e partiti di sinistra, che si erano accesi soprattutto attorno al referendum sul divorzio del 1974. Moro decise che era ora di fare pace e di aprire a sinistra e di avviare la fine della discriminazione anticomunista. Chiese a Berlinguer di scegliere un Presidente comunista. Berlinguer, che stava lavorando, proprio insieme a Moro, al compromesso storico (cioè all’alleanza tra Dc e Pci), decise di assegnare il compito a Pietro Ingrao, figlioccio di Togliatti, colonna del Pci, ma comunque rappresentante della minoranza del partito, che si opponeva alla strategia del compromesso storico.

I comunisti tennero la Presidenza da allora per quasi vent’anni. E furono anni di scontri durissimi: nel ‘78, sotto la presidenza Ingrao, i radicali fecero l’ostruzionismo sulla legge sull’aborto, sei anni dopo furono i comunisti (e i fascisti) a fare ostruzionismo sulla legge che tagliava la scala mobile. Ma la presidenza all’opposizione non fu mai messa in discussione. Dopo Ingrao ci fu Nilde Jotti, che di Togliatti era stata la moglie. Non sarebbe l’ora di tornare a quelle abitudini? Chi l’ha detto che una democrazia conflittuale, e anche bipolare, non possa essere sostenuta dalle Camere alla cui guida ci sia anche l’opposizione? Chiedere al Pd di esprimere un presidente non sarebbe stato un grande gesto di distensione, dopo una campagna elettorale feroce? Pare che Giorgia Meloni sarebbe stata favorevole. Ma non gliel’hanno permesso. È un peccato.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.