Non ci sarà nessun diluvio, dopo di lei. Forse. Il “dopo-Cartabia” per ora ha solo le fisionomie e i curricula, piuttosto rassicuranti, dei candidati a prenderne il posto, negli uffici di via Arenula, dove siede il ministro guardasigilli. Fisionomie e curricula che portano ai nomi di Giulia Bongiorno e Carlo Nordio.

Due riformatori, pur nella loro diversità. Ed è singolare che colui che si candida a incidere in profondità il sistema-giustizia in crisi sia un magistrato, addirittura un pubblico ministero, mentre colei che si è affrettata a rassicurare il sindacato delle toghe sia un’avvocata. E ancor più sorprendente è che il ministro di giustizia “garantista” non venga indicato dal partito di Berlusconi, cioè di colui che non dimentica mai nel suo programma di governo i principi dello Stato di diritto. Ma che si siano invece fatti avanti a rivendicare quel ruolo due partiti come la Lega (che pure ha meritoriamente promosso i referendum) e Fratelli d’Italia che hanno ancora da mangiare un bel po’ di minestra, prima di arrivare a rivendicare non solo i diritti dell’imputato, ma anche quelli del carcerato, fino a Caino, il più cattivo e colpevole di tutti. Cesare Battisti, per esempio.

Un piccolo sospiro di sollievo possiamo comunque tirarlo, perché non corriamo il rischio di vederci riproporre un contro-riformatore con la tendenza a far danni, come è capitato con la cosiddetta legge “spazzacorrotti”, come Alfonso Bonafede. Anche se pare che il partito di Conte stia minacciando con il kalashnicov di infilarlo come “laico” nel Csm. Potrebbe tentare di rivoltarlo come un calzino, secondo gli insegnamenti di uno dei suoi mentori. E in effetti ce ne sarebbe un gran bisogno, perché se c’è un luogo che è rimasto immutabile, anche a causa proprio della timidezza della piccola riforma Cartabia, è quello. Soprattutto per la non volontà dei magistrati di rigenerarsi e di pensare che, espulso come un nocciolo fastidioso conficcato in gola, Luca Palamara, magicamente siano scomparsi correnti e correntismo, camarille e giochetti sottobanco, e orientamento dei processi, quelli politici soprattutto.

Eppure basterebbe –possiamo permetterci di suggerirlo prima di tutto alla futura premier?- partire dalle parole del presidente Mattarella. Da quel che ha detto nel messaggio al trentacinquesimo congresso nazionale forense, definendo il momento politico della giustizia come “importante stagione di rinnovamento”, alludendo proprio ai cambiamenti introdotti nel sistema civile come in quello penale dalle riforme Cartabia. Sicuramente l’aria è cambiata. La ministra ha ascoltato tutti i soggetti del sistema giustizia, ma non si è fatta condizionare dai tanti “no” della magistratura. Non ha chiesto loro il permesso, prima di tutto. Era dai tempi di Mani Pulite, che non succedeva. E poi, nonostante qualche bombetta giudiziaria, l’atomica non è piombata sulle elezioni del 25 settembre. Ma il discorso di Mattarella da ricordare è quello del febbraio scorso, quando il Presidente conquistò, con 38 minuti e 52 interruzioni con ovazioni, l’intero Parlamento con parole di fuoco sulla magistratura.

Bisogna dirlo chiaro, non c’è riforma della giustizia se non cambia la magistratura. Se i soggetti protagonisti del processo non osservano le regole. Hanno la loro parte di ragione quelli che ritengono poco influente la separazione delle carriere tra pm e giudici (ma intanto facciamola), se il rappresentante dell’accusa continuerà a comportarsi come se tutto gli fosse concesso e dovuto. Come se le leggi fossero state scritte per gli altri, per tutti i cittadini tranne loro. Gli esempi non mancano. Basterebbe citare quel che succede quotidianamente nel distretto di Catanzaro e anche quel che è capitato negli anni scorsi alla Procura di Milano. Sergio Mattarella, che è anche il capo del Csm, conosce bene le toghe. E altrettanto bene le ha fotografate nel suo famoso discorso alle Camere.

La magistratura italiana, ha detto, ha perso credibilità. Come non dargli ragione? Basterebbe sfogliare la giurisprudenza della Cedu. Si è spezzato il vostro rapporto di fiducia con la gente, aveva detto ancora il primo cittadino. Vi interessa più il potere che la giustizia, non vi siete rigenerati dopo lo scandalo Palamara e rischiate di produrre sentenze ingiuste, aveva concluso Mattarella, travolto da una standing ovation. Poi il sasso finale: il carcere. Prigione senza processo, prigione sovraffollata perché tanti, troppi non dovrebbero essere lì. E morti, tanti. Partiamo da lì, allora. E da quel che ha detto un “carceriere”, il capo del Dap Carlo Renoldi: “il carcere non è l’unica pena”. Un buon punto di partenza per il dopo-Cartabia. Se anche Nordio e Buongiorno la pensano così. Come Mattarella.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.